mercoledì 10 dicembre 2014

i corti che escono su move magazine 20/ la mia vita stupefacente

di Mauro Evangelisti

La mia vita stupefacente

Aveva undici anni. Una sera vide il padre scusarsi con il direttore della banca in cui lavorava. Si erano incontrati per caso, in un bar, e il direttore lo aveva rimproverato, sia pure bonariamente, per un errore commesso in ufficio. «Nulla di grave, Giovanni, però la prossima volta faccia più attenzione, la prego». «Ha ragione direttore, la mia è stata una leggerezza ingiustificabile. Non succederà più». La cosa si esaurì in poche decine di secondi, il padre e il direttore parlarono di calcio, del tempo, dei figli che crescono e si erano salutati. Ma a Giampiero era rimasta impressa, indelebile, l’immagine del padre mortificato, del padre che dava del lei al direttore, del direttore che invece gli dava del tu. Non disse niente a suo padre, che con lui commentò «fa il burbero, ma è un bravo cristo, ce ne fossero di capi come lui».
Per una settimana ripensò a quanto era successo. E poi prese la decisione. «Se a quarant’anni non sarò diventato una persona importante, mi toglierò la vita. Accetterò la sconfitta e la farò finita. Non proseguirò una vita mediocre. Non avrebbe senso». Ecco, sarebbe stato normale se tutto fosse finito lì, se si fosse rivelata come una frase stupida di un ragazzino immaturo, un proponimento che uno dimentica o a cui ripensa con un sorriso. Ma per Giampiero non fu così. Più passavano gli anni, più quella promessa a se stesso si alimentava, si definiva nei contorni, prendeva forma, come uno schizzo a matita che viene ripassato con un pennarello. In quella decisione Giampiero trovava energia per essere il migliore al liceo, per studiare sei ore al giorno, per affrontare l’università con caparbietà tanto da laurearsi con 110 e lode in Economia a 23 anni. Fu subito assunto da una multinazionale, fu mandato a Hong Kong a fare esperienza nel settore bancario, ebbe un incarico di notevole responsabilità, a soli 28 anni, alla borsa di Londra. Due anni dopo, però, in un meeting organizzato dalla sua compagnia a Lanzarote, si accorse che la grande sala convegni dell’hotel era piena di giovani come lui, che avevano raggiunto risultati formidabili. Come lui. «No, così non uscirò dalla mediocrità». La sera stessa scrisse la lettera di dimissioni. Con i soldi che aveva accumulato, la liquidazione e la piccola eredità ricevuta dal padre in un anno creò una nuova compagnia e lanciò una catena di caffetterie alla moda, con il wi-fi e una presa ad ogni tavolino per ricaricare i cellulari e i tablet. La chiamò Coffee Four.
Inizialmente fu un successo, dopo tre anni aveva già quattordici locali in sei regioni italiane differenti, ma era indebitato con le banche. E soprattutto, in fondo, erano solo caffetterie. Accettò l’offerta di una multinazionale e vendette la catena di Coffee Four, limi-tando le perdite, ma riducendo comunque il capitale iniziale. Il giorno del trentacinquesimo compleanno lo trascorse in un hotel con tre prostitute. Non aveva mai pagato per il sesso, ma si sentiva molto triste e decise di farsi un regalo che ovviamente lo lasciò più vuoto di prima. Mancava solo un lustro al suo quarantesimo compleanno e la promessa che aveva fatto a se stesso, a undici anni, era ancora scolpita nella sua anima e per nulla al mondo l’avrebbe cancellata. Decise che aveva sbagliato obiettivo, che non erano l’economia o il business i territori in cui avrebbe trovato il sentiero per uscire dalla mediocrità. No, avrebbe scritto un libro. Ecco la strada. Tornò a Lanzarote, affittò una villetta per un anno e si chiuse dentro a scrivere, sette ore al giorno, la parabola di un ragazzo che parte dal nulla, raggiunge il successo, poi perde tutto travolto dalla droga e dall’ansia di avere sempre di più. Non era una storia molto originale, ma era ben scritta, con ritmo e linguaggio innovativo.
“La mia vita stupefacente” era il titolo. A una casa editrice di medie dimensioni piacque, perché – spiegò l’editor – poteva diventare un romanzo generazionale. Giampiero firmò il contratto, ma dovette aspettare un anno prima dell’uscita del libro. Il romanzo non andò male, vendette settemila copie, alla casa editrice furono contenti e gli chiesero di scrivere in fretta un seguito. Ma restò comunque un libro di nicchia, che fece disperdere il nome dell’autore tra migliaia e migliaia di volumi presenti nelle librerie. Quando Giampiero lo capì, mancavano pochi giorni al quarantesimo compleanno. Fu invitato a una festa della sua casa editrice, ma dimenticò l’invito e non lo fecero entrare. Nessuno lo riconobbe. Non insistette. Tornando a casa, capì che il tempo a disposizione era finito. Salì sul tetto del palazzo e si lasciò cadere nel vuoto. Mentre precipitava vide – o gli sembrò di vedere – da una finestra una ragazza con la felpa con il logo della multinazionale in cui lavorava a Londra e in mano una tazza con il brand di Coffee Four, immersa nella lettura di “La mia vita stupefacente”. Per pochi attimi fu felice.

mercoledì 19 novembre 2014

i corti che escono su move magazine 19/ prima della battaglia

 di Mauro Evangelisti

Prima della battaglia


Mio amato, ti ho chiesto di portare con te questa lettera in battaglia e di leggerla poco prima che il sangue cominci a scorrere perché spero possa darti incandescente forza che si vada ad aggiungere al tuo coraggio senza fine. Mi illudo che il mio amore, che sarebbe stato altrettanto solido in tempo di pace, alimenti un significato ancora più profondo a una battaglia tanto decisiva che tu e gli altri difensori del nostro popolo vi accingete a combattere. Sappiamo tutti quanto la situazione sia disperata e solo il vostro valore potrà evitare che il nostro popolo sia condannato alla schiavitù, annientato, perfino cancellato dalla storia. Vorrei essere lì al tuo fianco, tenerti la mano, asciugare il tuo sudore, fermare il tuo sangue che spero non debba mai sgorgare. Il mio amore non ti abbandonerà mai. Anche le ragioni più nobili e profonde, la sopravvivenza stessa di un'intera popolazione, in un uomo che combatte devono essere affiancate dalla consapevolezza che c'è un sentimento distinto da tutti gli altri alla base di tutto, del vivere o morire. Quel sentimento è l'amore che io provo per te e per i figli che, spero, un giorno potrò darti. Tua per sempre, Alma.

Cara Alma, ormai sentiamo l'odore stesso dei nostri nemici, le urla, le promesse di morte, gli insulti, da un esercito scomposto e selvaggio, ma pur sempre triplo del nostro. Noi siamo un popolo pacifico, costretto a combattere e morire per difendersi. Ma mai dolore sarà insopportabile con il tuo amore al mio fianco, il desiderio di rivederti, difenderti, salvarti. Scrivo queste poche righe dopo aver letto la tua lettera e lascerò questo pezzo di carta sotto una pietra. Se sopravviverò tornerò a prenderla e te la consegnerò. Se morirò, queste parole non moriranno con me.

Amore mio, tutto è perduto. Tu sei morto, nel campo di battaglia in cui è stata scritta la fine del nostro popolo. Fino all'ultimo uomo avete combattuto e siete morti, non vedrò neppure il tuo cadavere. Ti è stato risparmiato l'orrore di ciò che è successo dopo la sconfitta. Il nemico ha invaso la nostra città, ha bruciato le case, ha fatto a pezzi i nostri vecchi e i nostri bambini. E poi, ubriachi, ci hanno violentate per giorni. Molte di noi sono morte, a me Dio ha negato questo unico sollievo e vivo nella più umiliante delle schiavitù. Condannata a servire il nemico che ha distrutto il nostro popolo e che ti ha ucciso. Io ti amerò per sempre, fino a quando morirò e potrò rivederti, oltre i confini di questa vita. Scrivo questa lettera nella mia mente, nessuno la leggerà, ma è sorgente di forza. Come se servisse ancora a qualcosa, la forza.

Cara Alma, sono trascorsi trent'anni dalla battaglia in cui il mio popolo trovò la fine. Quel giorno, dopo la prima offensiva del nemico, sono fuggito. Ho avuto paura, non avevamo speranze e non volevo morire. Colpito da una spada ho visto il mio sangue e intuito che il prossimo nemico mi avrebbe tagliato la testa. Sono corso via e ancora mi seguono gli sguardi dei miei commilitoni. Sanguinante, ho scalato la montagna, allontanandomi dalla battaglia, dalla nostra terra e dalla mia dignità. Ho mangiato radici e insetti e ogni volta che ritrovavo le forze riprendevo a correre. Lontano, con il terrore di incrociare il nemico. No, non pensavo a te, Alma, per quanto ti amassi e ti ami ancora, provavo troppa vergogna. Pensavo a sopravvivere. Poi la vista si è offuscata e sono caduto in una palude pensando fosse la morte. Mi sono risvegliato in una branda, con terrore ho creduto di essere stato fatto prigioniero, con altrettanto terrore ho temuto che invece fossi stato salvato dal mio popolo, che avessimo vinto la battaglia e che mi sarei stato ricordato per sempre come colui che è fuggito. Non era vera alcuna delle due ipotesi. Ero finito nel territorio del popolo dello stagno, neutrale. Una coppia di anziani mi ha curato, guarito, accudito, senza domande. Mi ha accettato come un figlio. La mia vita è ricominciata lì, ho imparato lingua e usi differenti. Ho conosciuto la figlia della guida del popolo dello stagno, ci siamo innamorati e ci siamo sposati. Abbiamo avuto tre figlie, vissuto nell'abbondanza. Sono felice. E non sono mai venuto a cercarti, Alma, anche se mi hanno raccontato che vivevi schiava nella città del nemico. Oggi sono tornato sul campo di battaglia, per la prima volta dopo trent'anni. Ho ritrovato la pietra dove avevo lasciato la lettera che ti scrissi, l'ho strappata e dispersa nel vento. So di non meritare la felicità che la vita mi ha dato, vince l'ingiustizia. Ogni volta che guardo gli occhi delle mie figlie penso che sono il mio bene più grande e non sarebbero mai nate senza la mia fuga. In quest'ultima lettera, che scrivo per me e che tu non leggerai mai, posso solo concludere con certezza: ti amavo, nonostante la mia vigliaccheria. Ti amo ancora.


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i corti che escono su move magazine 18/ il vento in faccia

di Mauro Evangelisti

IL VENTO IN FACCIA
In ufficio mi hanno chiesto se volevo versare la mia parte per il regalo: trenta euro. Certo, ho risposto. E così nel biglietto è finito anche il mio nome. Sara, un mese prima, mi aveva preso da parte e con il solito sguardo avvolgente e bugiardo mi aveva spiegato: «Allora, ci siamo. Mi sposo. Tra sei settimane. Il ricevimento lo facciamo nella mia casa in collina. Mi farebbe piacere se venissi anche tu».
Io l'ho inquadrata intontito, mentre la lama - quella con cui ho imparato a convivere - mi torturava ad altezza stomaco. Dignità, ho detto a me stesso. «Se posso, vengo». E sono sgattaiolato via, come se Sara stesse tentando di vendermi un abbonamento alla pay-tv. Era il picco massimo di dignità a cui potessi aspirare.
Per fortuna era già quasi ora di tornare a casa, ho lasciato che gli altri uscissero prima di me, ho finto di essere impegnato con una cosa urgentissima sullo smartphone, ma in realtà stavo semplicemente cambiando lo sfondo, perché quella del tramonto scattata a Santorini decisamente non mi aveva portato fortuna. Misi l'immagine di una scogliera. Poi uscii da solo e mi fermai al Lidl a comprare della vodka. A casa scaldai una pizza, preparai quattro vodka e tonic, e mi sparai in cuffia un po' di musica metal, quella che mi piaceva ascoltare ai tempi del liceo.
Mi hanno detto che come regalo Sara ha chiesto un juke-box. Un vecchio juke-box funzionante che metterà nella tavernetta della villa per la quale il futuro marito sta già pagando rate del mutuo impressionanti. Il juke-box è una classica richiesta ”alla Sara”, a cui piace mostrarsi originale e poetica, ma poi si sposa con il tipo che paga rate del mutuo impressionanti.
Tre mesi. Tanto è durata la nostra quasi storia. Lei era già fidanzata con il tipo che domani sposerà e che paga rate del mutuo impressionati. Io ero innamorato, Sara forse ha voluto semplicemente farsi un ultimo regalo, uno straccio di emozione proibita prima del matrimonio. Aveva problemi in ufficio, io restavo a lungo a parlare con lei. Poi uscivamo, prendeva una scusa con il fidanzato e facevamo lunghi giri in automobile dalle parti della nuova tangenziale. Una mattina l'accompagnai anche a Bologna, dove aveva un colloquio con il boss della società per migliorare la sua condizione. Restai per almeno due ore sotto il palazzo ad aspettarla. Al ritorno mangiammo un panino all'autogrill, poi mi chiese di non accompagnarla a casa subito. E mentre vagavamo con la macchina tra i capannoni della zona industriale, mi disse a freddo: «Ma se non ti fermi, come fai a baciarmi?». Fu il primo nostro bacio e seguì altro. Ricordo strani hotel lungo la provinciale. Gli sguardi torvi dei portieri di notte. I camion parcheggiati fuori. Tre mesi, poi lei si allontanò e non mi diede più speranze. «Goditi il ricordo di ciò che è stato. Se davvero per te è stato importante quel ricordo non sbiadirà. Ma io ora devo proseguire la mia vita. Io amo il mio fidanzato».
Non è una grande scoperta: lavorare nello stesso ufficio con la donna che ami e non ti ama è una tortura; vederla ogni giorno, ascoltare le sue telefonate, può fare molto male.
Oggi è la domenica del matrimonio. Non andrò. Non ho mai pensato di andarci. Sara lo sa. Alla fine il juke-box non l'hanno trovato e con i soldi raccolti in ufficio è stato acquistato un robot da cucina. Io questa mattina ho cambiato di nuovo lo sfondo dello smartphone: ora c'è un pesce rosso dentro una boccia troppo piccola. O forse è il pesce rosso troppo grande. Mi infilo i pantaloni della tuta e la maglia della mia squadra di calcetto. Mi fermo al bar e mangio un tramezzino al tonno. Decido che vale come pranzo. Cammino fino al Lidl, ma è chiuso. Per fortuna ho ancora della vodka in casa. Mi stendo sul divano e preparo un vodka e cola. Sono iniziate le partite, butto un occhio su Sky, ma la tv mi appare come una successione di immagini inutili, gridolini dei telecronisti, mani nei capelli dei calciatori, arbitri che alzano braccia. In questo momento, penso, deve essere cominciato il ricevimento. Potrei presentarmi là e combinare un casino. Rovinarle il giorno del matrimonio. Ma non è nel mio stile, nel mio personaggio, io sono uno che fa a botte di rado, anche se quando succede di solito non sono quello che le prende. Mi rivesto e prendo la moto dal garage. Non corro, sono prudente, per strada non c'è nessuno. Salgo sulla collina, lascio la moto nel parcheggio della villa. Sono dietro a un albero, non è che mi nasconda, semplicemente di lì non possono vedermi. Lei sorride agli invitati, così da lontano, vestita di bianco, mi pare una ragazzina che ha appena fatto la prima comunione, non una giovane sposa. Eppure, allo stesso tempo, in quei lampi di sorrisi mi pare di intuire il tempo che passa e che passerà, ciò che sarà: è già oltre la giovinezza che quei sorrisi fanno apparire eterna, mentendo. Torno alla moto, vado via, penso al robot da cucina. Non indosso il casco, per un po’ voglio sentire il vento forte in faccia.

i corti che escono su move /17 restare soli

Restare soli

«Ti prego andiamo a casa».
«Chiedo il conto. Ma il cinema?».
«Scusami, ma questa storia di Licia mi ha rovinato la serata. Non me la sento. Perdonami».
«Ma cosa è successo?».
«Mi è arrivato un suo sms. Dice che dall'oggi al domani Marco l'ha lasciata, se ne è andato di casa. ”Adesso io che faccio?” mi ha scritto. Le ho risposto che appena arriviamo a casa la richiamo. Ma immaginati Licia. Ha 37 anni e si ritrova sola».
«Beh, 37 anni... Non sessanta. Può darsi che con Marco tutto si sistemi, ma a quell'età può benissimo incontrare un'altra persona, avere un'altra storia».
«Come al solito semplifichi. Non è così, soprattutto per una donna. È complicato ritrovare quella complicità, quella intimità che hai con un uomo con cui stai da molti anni. Dai, non dire stronzate».
In macchina, al ritorno, non parlano. Li accompagna il rumore dei tergicristalli, lo scrosciare dalla pioggia, un sussurro in sottofondo della radio su una partita di calcio.
In casa, dopo un'ora. Lui seduto sul divano la vede entrare nella sala e spegne la tv.
«C'hai parlato, allora?».
«Sì, sì».
«E... Come sta?».
«Come vuoi che stia? Farfuglia, non sa che dire, non aveva immaginato nulla. Non sa come riorganizzare la sua vita».
«Ma Marco perché se ne è andato?».
«Perché è uno stronzo. Perché - dice - dopo dieci anni è una storia finita, senza ossigeno, senza energia...Le solite cose che si dicono, dai».
«Secondo me ha un'altra».
«Ma perché parli così a vanvera, sempre? Perché secondo te tutto è nero o bianco, perché se uno se ne va deve essere per forza perché c'è un'altra persona?».
«Facevo una ipotesi».
«Sì, vabbè, scusami. Sono nervosa, sono stanca, voglio andare a dormire».
Nel letto, dopo mezz'ora. Lui ormai è assopito, vicino al punto di non ritorno del sonno. Ma lei spezza il silenzio.
«Io credo che anche tra noi stia finendo tutto, ecco perché me la sto prendendo tanto per Licia. Quello che è successo a loro, sta succedendo anche a noi».
Lui sente il colpo, non capisce, barcolla, sente l'odore della tempesta che si avvicina.
«Ma io non ho nessuna intenzione di andarmene come ha fatto Marco, io sto bene con te».
Lei abbassa il tono della voce, tenta di attenuare l'aggressività, quasi dolce.
«Non è un problema di andarsene o restare, di lasciarsi o continuare, è qualcosa che non c'è più, uno stagno in cui siamo finiti e da cui non usciremo. Non può che peggiorare. Cerchiamo di essere sinceri, ormai stiamo insieme perché sarebbe più faticoso lasciarci. E perché in fondo siamo due brave persone. Ma non ci amiamo più».
Lui sente l'angoscia avvolgerlo, era cominciato tutto con i guai di Licia, si era quasi sentito fortunato, aveva pensato che per loro era differente, che il rapporto era lì, fermo, rassicurante, ed ecco apparire il mostro - prima piccolo, quasi impercettibile, poi sempre più grande - di lei che vuole lasciarlo. Si avvicina, prova a baciarla, lei glielo lascia fare. Lui inizia ad accarezzarla, quasi a verificarne la presenza, con forza sempre maggiore. Fanno l'amore, con un'intensità che non avevano provato negli ultimi mesi. Poi, però, dopo che lui viene, lei si alza, fa la doccia, torna a letto e dorme. Lui va in bagno, apre l'acqua del rubinetto e ancora non ha capito se era solo un finto allarme, se lei ha parlato con leggerezza, senza credere nel profondo a ciò che stava dicendo, o se invece qualcosa si è spezzato, che i prossimi mesi saranno fatti di separazioni, lacrime e cambiamenti.
Torna a letto e parla, senza sapere se lei stia ascoltando o stia dormendo.
«La verità è che abbiamo sbagliato a non avere un figlio. Abbiamo trentacinque anni, sarà pur vero che con i nostri stipendi fatichiamo e che potrebbe anche andare peggio, visto che da me stanno tagliando. Ma ha ragione mia madre: se aspetti il momento perfetto, un figlio non lo fai mai».
Poi si stringe la testa con il cuscino, quasi a coprire i rumori di fondo, quasi a non volere udire una risposta di lei che non arriva.
Il giorno dopo, verso le 20, lui torna a casa dal lavoro e trova un biglietto sulla tavola. «Dammi qualche settimana, non cercarmi. Stai tranquillo, sono nella casa al mare dei miei. C'è anche mia madre. Abbi cura di te».
Lui rilegge tre volte il biglietto, prende lo smartphone, sta per comporre il suo numero, poi decide che è una cosa sbagliata. Le invia un messaggio: «Prenditi il tempo che ti serve, ma per favore torna da me». Poi scende ed entra in macchina. Parcheggia davanti a una bella palazzina bianca, con i fiori gialli sui balconi. Suona il campanello: «Licia, sono io. Sei sola?». «Sì, sali».
Dopo mezz'ora sta scopando con Licia. Sono sudati. «Ma secondo te hanno capito che cosa stava succedendo tra noi due?». «No - risponde lui - non credo. Però sono sincero: io sto male sul serio, mi piace scopare con te, lo vedi, ma senza di lei non riesco a stare». «Lo so, è lo stesso per me con Marco. Ma secondo te torneranno?».

venerdì 3 ottobre 2014

i corti che escono su move /16 l'uomo che andava ai funerali

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

L'uomo che andava ai funerali

La prima volta successe quando aveva dodici anni. Piero era in parrocchia a cercare don Franco, per pagargli la gita sulle Dolomiti di due settimane prima. Suo padre aveva ricevuto lo stipendio e gli aveva dato i soldi per saldare il conto. Solo che don Franco non c'era. Prima suonò al suo appartamento, vicino alla parrocchia, poi andò al campo da basket, ma c'era solo un pallone sgonfio e un ferro penzolante che quasi circondava il sole al tramonto. Provò nella sala del ping pong, con la banconota da cinquantamila lire stretta in mano. Nulla, era agosto e c'era il deserto, il quartiere si era svuotato, nessuno andava in parrocchia. Poi, entrò in chiesa e fu abbagliato: la bara di legno scuro e le maniglie dorate, tre corone di fiori, la maglia da ciclista adagiata vicino perché la bicicletta era la passione del defunto. Don Franco stava spiegando, dal pulpito, quanto era legato a lui, lo aveva visto bambino, accompagnato dai genitori per la prima comunione. E lo aveva sposato vent'anni dopo. Dalla prima fila la vedova iniziò un singhiozzo pudico. Con una mano stringeva il capo di un bambino. Poi quattro uomini, non a loro agio nei completi scuri, sollevarono la bara e la portarono fuori, lentamente. «Sono gli amici e un cugino» gli sussurrò a un orecchio una vecchia. Uno dei quattro, il più grosso, non riuscì ad arginare le lacrime, e dondolava, con la bara sulla spalla. È tutto magnifico, pensò Piero. Da quel giorno, ogni volta che c'era un funerale, correva in parrocchia. Gli piaceva assistere a quell'ultima rappresentazione di una vita finita, le lacrime, i ricordi, l'isteria, la rabbia, la sconfitta, la malinconia. Giovani che piangevano vecchi perché con loro se ne andava anche la loro giovinezza. Vecchi che piangevano vecchi perché insieme avevano costruito ricordi e capivano che presto sarebbe toccato a loro. Vecchi che piangevano giovani perché ora non c'era più un senso. Funerali affollati di gente sudata, funerali con la chiesa semivuota perché chi era morto solo. Don Franco consolava e celebrava, con parole nuove ma anche ripetute. Finché Piero assistette al funerale di don Franco. Piero, tra un funerale e l'altro, ebbe una vita normale, perfino brillante: si laureò in economia, cominciò a lavorare da un commercialista, si innamorò della figlia e la sposò. Vacanze, cinema, partite di calcio, la sera la tv, la nascita del bambino, la casa nuova. Solo che ogni tanto Piero si assentava, per un giorno, con scuse sempre differenti, e andava nelle città vicine. In cerca di funerali. Avesse continuato ad assistere ai funerali nella parrocchia vicino a casa, sarebbe stato notato, lo avrebbero bollato come uno strano. Allora lui leggeva le cronache locali dei quotidiani - insegnante muore in motorino, ex sindaco stroncato da un infarto, giovane promessa della pallavolo finisce fuori strada -, sceglieva le storie più interessanti e andava ai funerali. A volte si limitava ai necrologi e sceglieva funerali di morti comuni, anziani morti di vecchiaia. Magnifico, pensava. Ogni volta come la prima volta. Trovava nei funerali una intensa vibrazione sul significato delle vite, anche quelle più insignificanti. Finché un giorno iniziò ad annoiarsi. Aveva 45 anni, sua figlio andava già al liceo e quasi non parlava con lui, sua moglie era distante. Ma soprattutto i funerali cominciarono a deluderlo, gli sembravano tutti uguali. E si accorse che non aveva molto altro da fare. Lo studio da commercialista macinava denaro in automatico, lui trascorreva le giornate camminando senza meta e desideri. Quando il pallone amaro che gli era cresciuto in gola stava per scoppiare, decise di partire. Inventò un'altra scusa, salì su un aereo e si ritrovò a bere alcol come non aveva mai bevuto in un paese a dieci ore di volo da casa sua. Fece amicizia con un altro italiano, perfino più disperato di lui, che all'alcol aggiungeva la droga. Un giorno Piero assistette a un incidente stradale, l'auto dell'italiano finì fuori strada e bruciò. Successe rapidamente: allungò 1.000 dollari a un poliziotto che conosceva, gli chiese di consegnargli il passaporto intonso, caduto lontano, dell'amico carbonizzato. E con altri 500 dollari lo convinse a mettere, nello stesso punto, il suo passaporto. Piero e l'italiano si assomigliavano. Tornò in Italia con il passaporto dell'amico, mentre i giornali e i siti Internet italiani scrivevano che un italiano - Piero - era morto carbonizzato in un incidente nel paradiso delle vacanze. Si rase a zero, si lasciò crescere la barba, comprò degli occhiali da sole. Corse nella parrocchia, dove tutto era cominciato. C'era un funerale e sui manifesti c'era la sua foto. C'era sua moglie che piangeva, il figlio consolato dai compagni di classe, il sacerdote che dal pulpito diceva che Piero era sempre stato una brava persona, che veniva spesso in chiesa. In molti, tra il pubblico, facevano sì con la testa. Piero stava assistendo al suo funerale. È magnifico.

sabato 20 settembre 2014

i corti che escono su move 15/ caffè nero

copia e incolla da movie magazine

di Mauro Evangelisti


Caffè Nero


Il treno partì in ritardo. Paolo restò solo a guardare il vecchio convoglio lento che se ne andava, portandosi via Anna. Si erano salutati senza calore, l'affetto non reclama emozioni. Paolo era stato cupo e scontroso per tutta la settimana che Anna aveva trascorso a casa sua, perché sentiva avvicinarsi il momento in cui non avrebbe potuto fare altro che annunciarle che la loro storia era finita. Rimandava, come quando non curi una ferita e sai che l'infezione può avanzare. Ma Paolo non aveva trovato il coraggio, come per la verità gli capitava spesso, e così erano andati a vedere film inutili, avevano dormito abbracciati, tentando di convincersi che quel contatto valesse più del raro sesso, avevano cenato in silenzio in ristoranti con le sedie trasparenti e i soffitti metallici. Avevano trascorso ore, con Paolo seduto sulla poltrona a leggere notizie innocue sull'iPad e Anna appoggiata sui gomiti, supina sul divano, a leggere un libro di Don DeLillo, ma soprattutto a chiedersi se qualcosa si stesse spezzando o era lei a inventare spettri. Ogni tanto Paolo spezzava il silenzio «mi sa che scendo a prendere un po' di gelato, che gusti vuoi?», «i soliti, vuoi che ti accompagno?», «no, faccio presto». E in ascensore mandava messaggi a Lara. Lei rispondeva con faccine e chiedeva «ma quando se ne va quella?». «A te cosa importa?» ribatteva lui, aggiungendo . Poi cancellava la conversazione e si sentiva in colpa perché con Anna trascorrevano insieme una decina di giorni al mese, a causa dei loro lavori in due differenti città, però lui concentrava la sua attenzione sui messaggi a Lara, con la testa che ondeggiava ma la parte bassa del corpo abbastanza sicura su cosa volesse davvero. Che «quella» se ne andasse e che finalmente potesse proseguire la storia con la ragazzina - 10 anni in meno di lui, 7 in meno di Anna - che aveva conosciuto in un locale durante un aperitivo con un amico. «Una storia a 250 chilometri di distanza logorerebbe chiunque. E dopo quattro anni Anna e io ci siamo detti tutto» ripeteva a se stesso senza avvertire la sottile contraddizione di quella frase. Il treno quella sera si era allontanato e Paolo si convinse che non avrebbe mai avuto il fegato di lasciare Anna.

Tre giorni dopo, e dopo quattro brevi telefonate per chiedere «sei arrivata?», «bene il viaggio?», «come stai?», con risposte che Paolo avrebbe potuto prevedere, tornò nel locale dell'aperitivo. Lara non c'era perché era in settimana bianca con i genitori. Paolo bevve più del solito. Quando tutto intorno a lui cominciò a girare, uscì dal locale e si avviò a casa a piedi. Ma l'effetto dell'alcol, invece di diminuire, con il freddo, una fastidiosa pioggia battente e le luci sbiadite delle auto, si moltiplicò. Paolo si sentì euforico, si fermò sotto una pensilina del bus, vicino a due senegalesi, e di impulso scrisse il messaggio: «Anna, mi dispiace, è finita. C'è un'altra». I due senegalesi lo videro tremare. «Stai bene amico?». «Ho appena mandato un messaggio con cui ho lasciato la mia fidanzata». «Con un messaggio? Sei proprio stronzo amico, scusa se te lo dico». «Ma no, ho fatto bene così» rispose sulla scia di euforia dell'alcol.
Quattro mesi dopo, a giugno, Paolo andò a Ibiza con Lara. Bastarono poche ore per sentirsi in trappola, un'illuminazione: per Lara tutto era un problema. Se in hotel non c'era la tv italiana, se in profumeria non avevano la crema preferita, se in discoteca c'era troppa gente o non abbastanza. E la colpa era sempre di Paolo. Nessuna notte di sesso poteva valere quel calvario. E capì che gli mancava Anna. Che lui aveva una connessione reale, indiscutibile con Anna. Con Lara non c'entrava nulla.
Tre settimane dopo era nella città in cui Anna viveva. Al telefono Anna non rispondeva, era scomparsa da Facebook e da Whatsapp. Paolo suonò a casa sua, non rispose nessuno. Girò a piedi tutto il centro, sperando di incontrarla. Andò nella sede dell'agenzia pubblicitaria dove lavorava ma una segretaria gli spiegò che c'erano stati dei tagli a causa della crisi e ad Anna non avevano rinnovato il contratto. «Mi ha detto che andava a vivere a Londra, da un'amica, che era stanca dell'Italia, che là avrebbe anche fatto la cameriera, se fosse servito. Ha cambiato numero e non va più su Facebook. Deve essere colpa del suo ex, uno stronzo, l'ha mollata dall'oggi al domani. Ma tu perché la cercavi?».
Ora Paolo cammina lungo Regent street, a Londra, sui marciapiedi affollati, sa che prima o poi incontrerà Anna. È una convinzione irrazionale. Conosce la sua passione per l'arte contemporanea e ha trascorso una giornata nella centrale elettrica trasformata nella Tate Modern Gallery. Inutilmente. È stanco, si addentra nelle vie di Soho, entra a bere un espresso da Caffè Nero. Fa la fila alla cassa e poi aspetta al bancone. Da dietro la macchina del caffè sbuca una ragazza con la tazzina fumante. È Anna.

domenica 24 agosto 2014

Il tablet comincia a settant'anni

di Mauro Evangelisti

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno ti saresti trovato a ragionare con tua madre sul punto esatto in cui accarezzare il tablet per scattare il famigerato selfie. Che con il bluetooth, tecnologia vintage ma efficace, le avresti passato sulla tavoletta gli ultimi brani di Guetta: in fondo i ritmi dei tormentoni estivi piacciono anche a lei che pure ha superato i 70 e, quando in tv non c’è più nulla da vedere, alza a palla il volume del tablet per trasformare la casa in montagna in una Ibiza in miniatura.
(...) continua a leggere qui
http://www.ilmessaggero.it/ROMA/SENZARETE/tablet_anziani_tecnologia_roma_citt_amp_agrave/notizie/858588.shtml

Il mistero del ragazzo che voleva 100 figli (e ne ha già 15)

un Johnny Nuovo al cubo...

di Mauro Evangelisti

La strana storia del ventiquattrenne che ha 16 figli e progettava di farne nascere molti altri, almeno dieci all’anno; addirittura voleva conservare il suo seme per quando sarebbe stato più vecchio, per ritrovarsi con centinaia di discendenti. Sembra la trama di un film di fantascienza, è il cuore di un’indagine dell’Interpol, che mette al centro però anche un reato molto grave come il traffico di essere umani.
(...)
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mercoledì 30 luglio 2014

i corti che escono su move 14/ il reato di solutidine

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Il reato di solitudine

L'allarme è scattato attorno alle 20. Con la squadra sono corso nella zona est della città, nei cunicoli. Lo abbiamo trovato in un angolo, appoggiato al muro, che fissava il vuoto. Sorrideva e quando ci ha visto si è spaventato. Gli abbiamo intimato "fermo" e abbiamo acceso le telecamere. La sua immagine è stata mandata in rete, vista, studiata, commentata, derisa, bollata da poche parole di comprensione tipo «poverino, forse era impazzito» a cui hanno risposto i più «vergogna, non giustificatelo, sono persone come queste che potrebbero mandare in rovina il nostro sistema».
Io l'ho avvicinato e ho pronunciato la solita formula, che per fortuna ormai siamo costretti a usare sempre meno: «Cittadino, la prendo in custodia con l'accusa di isolamento. Lei ha infranto il principio cardine della nostra costituzione che combatte e vieta la solitudine, perché chi si isola, chi non resta connesso alla società, ha qualcosa da nascondere. Si dichiara colpevole?». Lui mi ha guardato negli occhi e mi ha sorriso: «Certo, ho sbagliato. Però sono stati i 36 minuti più belli della mia vita».
Sì, trentasei minuti avevamo impiegato a rintracciarlo, dopo che aveva estratto il trasmettitore sottocutaneo dalla pelle della mano, aveva strappato le piccole antenne che consentono la costante connessione con le microcamere che ognuno di noi porta sul corpo. Aveva anche gettato in un fiume la tavoletta, quella che ci consente di dialogare e vedere gli altri costantemente. Ormai faccio questo lavoro da 10 anni. La legge che ha vietato la solitudine è di trent'anni fa. All'inizio coloro che la violavano erano numerosi, ma con il tempo sono diminuiti, la popolazione si è resa conto che rinunciare alla privacy e alla solitudine, essere connessi senza soluzione di continuità, è un formidabile strumento per assicurare la pace e la concordia, contrastare il crimine e la violenza. «La nostra sarà una società più giusta e felice - spiegò trent'anni fa il Presidente - perché chi non ha nulla da nascondere non ha bisogno di nascondersi. Perché se siamo tutti fratelli, allora è giusto essere sempre connessi ai nostri fratelli. Rinunciare alla solitudine significa essere felici».
Sono tornato a casa, ho fatto la doccia e mi sono seduto a tavola con mia moglie e mio figlio. Sugli schermi alle pareti vedevamo famiglie di amici che stavano cenando come noi. E loro vedevano noi. Qualcuno, nelle sale operative decentrate ci stava guardando, di sicuro la rete dei computer centrale analizzava e memorizzava tutti i nostri movimenti. «Ti ho visto oggi papà - mi ha detto mio figlio - hai preso quel maledetto delinquente colpevole di solitudine. Ma perché ci sono persone così?». Io gli ho sorriso e in pochi secondi sono arrivati dalla rete almeno 500mila "i like" alla frase di mio figlio.
E un giorno ho incontrato Eva. Era anche lei nelle squadre anti solitudine, ma agiva in un'altra zona. Ci siamo incrociati in caserma e non abbiamo detto nulla, è stato solo uno scambio di sguardi, impercettibile anche alle telecamere che scrutano anomali sentimenti nella popolazione. A pranzo ci siamo seduti vicini, nella mensa, fingendo che fosse tutto casuale. «Oggi sarà una bella giornata» le ho detto. «Forse - mi ha sorriso - ma per me è già bella». Non ha aggiunto altro, ma per me significava «sono contenta di averti conosciuto, sono innamorata di te». Nel corso delle giornate successive abbiamo continuato ad incontrarci, sempre fingendo che fosse per caso, sempre fingendo di scambiarci parole di circostanza. Così potevamo eludere i controlli, evitare che mia moglie o suo marito divenissero sospettosi, ma anche che la sala operativa centrale intervenisse di fronte al pericolo di sentimenti anomali e potenzialmente nocivi.
Una sera siamo fuggiti: come nessuno conoscevamo le falle del sistema e siamo riusciti a disconnetterci dalla rete con un discreto vantaggio sulle squadre che sarebbero venute a cercarci. Stavamo correndo su un prato, tenendoci per mano, quando lei si è fermata e mi ha baciato. Subito dopo mi ha puntato al volto un immobilizzatore e ha urlato:«Ti dichiaro in arresto». Era una trappola, mi avevano messo alla prova e l'avevo fallita. Quello che non sapevano che io avevo fin dall'inizio sospettato di Eva, avevo anch'io un immobilizzatore. Sono stato più rapido di lei, l'ho colpita, l'ho lasciata sul prato, si sarebbe risvegliata solo dopo 24 ore. Poi ho corso, sfruttando un corridoio di assenza della rete dei controlli, fino ai cunicoli. Solo. Mi sono steso e con le mani sotto la testa e ho fissato il soffitto. Ho iniziato a pensare, ero solo. Finalmente.
Ecco cos'è la solitudine. Forse presto mi troveranno, verranno a prendermi, ma sto trascorrendo i momenti migliori della mia vita.

giovedì 24 luglio 2014

i corti che escono su move 13/ non ti amo

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Non ti amo Mi alzo, lascio dieci euro sul tavolo, mi allontano, sento Sandra «ma dove vai, almeno salutami». Cammino in una città che non conosco, è stato un errore venire fin qui per convincerla a tornare. «Non ti amo, forse non ti ho mai amato, come faccio a tornare?» mi ha detto. Ho insistito, a lungo, ho costruito ragionamenti pericolanti. Ora salgo sul treno, appoggio la testa al finestrino gelido, guardo fuori. Poi un boato, volo per una decina di metri, sento un dolore acuto alla spalla, vengo sbattuto a destra e a sinistra del vagone. Urla. Silenzio. E di nuovo urla. Fuori trovo altri zombie, più in là un vagone sta andando a fuoco, io non sento più il braccio, forse è rotto. Urla, «aiuto, aiuto». Corro, entro tra i rottami del vagone che brucia, forse cerco la morte perché sono già morto. Vedo due bambini incastrati nei sedili, li afferro, tiro, li porto via, li lascio sul prato. Quattro ore dopo sono su un letto di un ospedale, sento il profumo dello shampoo alla mela di una giornalista che quasi mi colpisce con un microfono. Mi ha spiegato che una telecamera da lontano mi ha filmato mentre entravo nel vagone in fiamme. Il video è già sul web, lo hanno visto in tutto il mondo. «Come è andata?» Ora mi chiede. Io non posso dirle che cercavo solo di morire, e allora mento, spiego che lo avrebbe fatto chiunque. Arriva Sandra, stringe la borsa come fa quando è nervosa, mi abbraccia, non si accorge della telecamera. Prima un medico mi ha chiesto se volevo avvertire qualcuno. Ho solo mio padre, ma è stato appena operato al cuore. Così ho telefonato a Sandra. La giornalista però non perde l'occasione: «Lei è la fidanzata?». Sandra esita, ma capisce che non può spiegare in diretta che mi ha lasciato tre mesi fa, che se ne è andata all'alba, senza dirmi nulla. Così risponde: «Sì, sono la fidanzata». Quando restiamo soli si giustifica: «Ho mentito, ma cos'altro potevo fare?». Quella bugia in diretta però resta attaccata alla pelle, come la sabbia dopo una giornata in spiaggia. Ci intervistano, finiamo in programmi in cui non vorremmo andare ma a cui dice sì mio padre quando risponde al telefono. Lui non sa che con Sandra tutto è finito. Ma la verità potrebbe agitarlo e prosegue la farsa. «Ora basta però» mi dice Sandra, dopo l'ennesima intervista. Però un giorno chiama a casa il produttore de «La vita è un sogno». Mio padre, che pure un tempo era un serioso intellettuale di sinistra, da quando trascorre le giornate sul letto adora quel programma. Dice sì per noi, poi ci implora di andare. Accettiamo, «ma è l'ultima volta» lo rimprovera Sandra. Nuova recita in diretta, la giornalista si commuove quando rivede il video del salvataggio dei bambini. «Sandra, sa che è innamorata di un eroe?» chiede, asciugandosi una lacrima. «Certo, l'ho sempre saputo». Applausi. «Qual è il vostro sogno? Il viaggio che avete sempre desiderato?». Restiamo in silenzio. Esco dall'imbarazzo e invento: «Bali». Non so neanche dove sia. Sandra approva, «sì Bali». «Sorpresa! Il nostro sponsor vi regala un magnifico viaggio ovunque vogliate. Volete Bali? Sceglieremo il resort più bello». Ora stiamo passeggiando sulla spiaggia di Semyniak. Ho tentato di spiegare alla produzione che non volevamo regali, ma loro hanno insistito e si stavano insospettendo. Sarebbe venuto fuori che Sandra e io non stiamo più insieme e avremmo rischiato di ritrovarci inseguiti da ancora più giornalisti di prima. D'accordo con Sandra, abbiamo deciso di fare l'ultima recita, ora siamo mano nella mano, la telecamera dietro di noi, naturalmente. Beviamo due Singapore Sling, ci gira la testa. Finalmente nella suite del resort restiamo soli. «Non dormire sul divano stasera» mi dice lei, che è più malinconica del solito. Facciamo l'amore, dura poco e non è molto bello, però dormiamo abbracciati. «Ormai ho 32 anni ed è come se il destino mi dicesse che devo restare con te. Sposiamoci, anche se non ti amo» mi sussurra. Sono trascorsi trent'anni e siamo ancora insieme. Siamo alla festa di laurea della nostra unica figlia e tutti ci guardano con ammirazione, per la solidità del nostro matrimonio. Sandra non mi ha mai amato, non c'è stata più passione tra noi. Negli anni l'ho tradita, ma non mi sono mai innamorato di altre donne. Forse anche lei lo ha fatto, ma con discrezione. La recita, iniziata per caso, non è mai finita, eppure siamo sereni, perché ci siamo voluti bene. Forse se non ci fossimo più incontrati, da quel giorno in cui sono salito sul treno, saremmo stati più infelici. Sandra mi abbraccia, capisce i miei pensieri. «Non è stata una storia d'amore» le dico. «No, ma va bene così». Mi alzo, lascio dieci euro sul tavolo, mi allontano, sento Sandra «ma dove vai, almeno salutami». Cammino in una città che non conosco, è stato un errore venire fin qui per convincerla a tornare. «Non ti amo, forse non ti ho mai amato, come faccio a tornare?» mi ha detto. Ho insistito, a lungo, ho costruito ragionamenti pericolanti. Ora salgo sul treno, appoggio la testa al finestrino gelido, guardo fuori. Poi un boato, volo per una decina di metri, sento un dolore acuto alla spalla, vengo sbattuto a destra e a sinistra del vagone. Urla. Silenzio. E di nuovo urla. Fuori trovo altri zombie, più in là un vagone sta andando a fuoco, io non sento più il braccio, forse è rotto. Urla, «aiuto, aiuto». Corro, entro tra i rottami del vagone che brucia, forse cerco la morte perché sono già morto. Vedo due bambini incastrati nei sedili, li afferro, tiro, li porto via, li lascio sul prato. Quattro ore dopo sono su un letto di un ospedale, sento il profumo dello shampoo alla mela di una giornalista che quasi mi colpisce con un microfono. Mi ha spiegato che una telecamera da lontano mi ha filmato mentre entravo nel vagone in fiamme. Il video è già sul web, lo hanno visto in tutto il mondo. «Come è andata?» Ora mi chiede. Io non posso dirle che cercavo solo di morire, e allora mento, spiego che lo avrebbe fatto chiunque. Arriva Sandra, stringe la borsa come fa quando è nervosa, mi abbraccia, non si accorge della telecamera. Prima un medico mi ha chiesto se volevo avvertire qualcuno. Ho solo mio padre, ma è stato appena operato al cuore. Così ho telefonato a Sandra. La giornalista però non perde l'occasione: «Lei è la fidanzata?». Sandra esita, ma capisce che non può spiegare in diretta che mi ha lasciato tre mesi fa, che se ne è andata all'alba, senza dirmi nulla. Così risponde: «Sì, sono la fidanzata». Quando restiamo soli si giustifica: «Ho mentito, ma cos'altro potevo fare?». Quella bugia in diretta però resta attaccata alla pelle, come la sabbia dopo una giornata in spiaggia. Ci intervistano, finiamo in programmi in cui non vorremmo andare ma a cui dice sì mio padre quando risponde al telefono. Lui non sa che con Sandra tutto è finito. Ma la verità potrebbe agitarlo e prosegue la farsa. «Ora basta però» mi dice Sandra, dopo l'ennesima intervista. Però un giorno chiama a casa il produttore de «La vita è un sogno». Mio padre, che pure un tempo era un serioso intellettuale di sinistra, da quando trascorre le giornate sul letto adora quel programma. Dice sì per noi, poi ci implora di andare. Accettiamo, «ma è l'ultima volta» lo rimprovera Sandra. Nuova recita in diretta, la giornalista si commuove quando rivede il video del salvataggio dei bambini. «Sandra, sa che è innamorata di un eroe?» chiede, asciugandosi una lacrima. «Certo, l'ho sempre saputo». Applausi. «Qual è il vostro sogno? Il viaggio che avete sempre desiderato?». Restiamo in silenzio. Esco dall'imbarazzo e invento: «Bali». Non so neanche dove sia. Sandra approva, «sì Bali». «Sorpresa! Il nostro sponsor vi regala un magnifico viaggio ovunque vogliate. Volete Bali? Sceglieremo il resort più bello». Ora stiamo passeggiando sulla spiaggia di Semyniak. Ho tentato di spiegare alla produzione che non volevamo regali, ma loro hanno insistito e si stavano insospettendo. Sarebbe venuto fuori che Sandra e io non stiamo più insieme e avremmo rischiato di ritrovarci inseguiti da ancora più giornalisti di prima. D'accordo con Sandra, abbiamo deciso di fare l'ultima recita, ora siamo mano nella mano, la telecamera dietro di noi, naturalmente. Beviamo due Singapore Sling, ci gira la testa. Finalmente nella suite del resort restiamo soli. «Non dormire sul divano stasera» mi dice lei, che è più malinconica del solito. Facciamo l'amore, dura poco e non è molto bello, però dormiamo abbracciati. «Ormai ho 32 anni ed è come se il destino mi dicesse che devo restare con te. Sposiamoci, anche se non ti amo» mi sussurra. Sono trascorsi trent'anni e siamo ancora insieme. Siamo alla festa di laurea della nostra unica figlia e tutti ci guardano con ammirazione, per la solidità del nostro matrimonio. Sandra non mi ha mai amato, non c'è stata più passione tra noi. Negli anni l'ho tradita, ma non mi sono mai innamorato di altre donne. Forse anche lei lo ha fatto, ma con discrezione. La recita, iniziata per caso, non è mai finita, eppure siamo sereni, perché ci siamo voluti bene. Forse se non ci fossimo più incontrati, da quel giorno in cui sono salito sul treno, saremmo stati più infelici. Sandra mi abbraccia, capisce i miei pensieri. «Non è stata una storia d'amore» le dico. «No, ma va bene così»

venerdì 4 luglio 2014

i corti che escono su move 12/ 1.232.009 volte

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

1.232.009 volte
Alberto esce di casa in fretta, ma quando sente la porta chiudersi alle sue spalle si ricorda che ha lasciato le chiavi dentro. Merda. «Francesca mi prenderà in giro per una settimana». Francesca abita sullo stesso pianerottolo. Ha 35 anni, come lui. Divorziata, come lui. Da quando si è trasferita nel palazzo è nata una goliardica complicità. All'inizio Alberto sperava di portarla a letto, poi gradatamente tutto si è trasformato in un'amicizia quasi da compagni di scuola. La chiama: «Francesca, ho dimenticato le chiavi dentro casa. Tu hai una copia delle mie, no?». Francesca al cellulare ride. «Tranquillo, stasera ti apro io, le ho nel cassetto in cucina». «Basta che non ti fermi in giro a scopare, perché io alle 21 devo rientrare» scherza lui, divertito dal linguaggio volgare che ormai li accomuna. «Beh, puoi sempre chiedere a Tommy di aprirti». Tommy è il bastardino di Francesca che trascorre le giornate da solo nell'appartamento. Alle 21.15, dopo una giornata faticosa in ufficio, Alberto torna a casa e suona alla porta di Francesca. Non risponde. Prende il cellulare e la chiama. È staccato. Aspetta, riprova. Ancora staccato. Le manda un sms scherzoso: «Con chi cazzo stai scopando?». Trascorre il tempo. Alberto è rassegnato. Poi si ricorda che dalla finestra del pianerottolo può raggiungere il balcone di Francesca. Lo ha già fatto, quando anche lei dimenticò le chiavi. Si arrampica, salta, si ritrova nel balcone, solleva la serranda ed entra. Vede Tommy a terra, ricoperto di sangue. Vede Francesca sul letto, corre ad aiutarla, sposta un coltello che è vicino a lei, il collo è squarciato. È morta. Bussano alla porta, «carabinieri» urlano. Lo trovano vicino al letto, il corpo di Francesca, il coltello che ha toccato, il sangue. All'alba esce dalla caserma in manette, decine di persone gridano «assassino». Il capitano dei carabinieri e il magistrato non hanno creduto a una sola parola del suo racconto. Hanno raccolto il cellulare di Francesca ritrovato a terra. Lo hanno acceso e hanno letto l'ultimo sms di Alberto: «Con chi cazzo stai scopando?». Una vicina lo ha visto entrare dal balcone. Alberto si ritrova in cella, in isolamento, e pensa che tutto sia finito. Eppure la sua vita stava andando bene. E poi ecco il buio improvviso. Se solo non si fosse dimenticato le chiavi. Non mangia più. Una notte pensa a Tommy, al cane che Francesca aveva trovato per strada. Il giorno dopo chiede di cambiare avvocato, nomina Loretta, una vecchia compagna di università. Le spiega: «Stanotte mi è tornato in mente: Francesca si divertiva a riprendere ciò che faceva in casa Tommy, il cane, quando lei non c'era. Aveva installato un software nel pc e una webcam registrava tutto. Forse è stato ripreso l'assassino». Dopo una settimana Alberto è libero. Sono state trovate le immagini, si vede Francesca che rientra a casa, ma dietro qualcuno spinge la porta, entra un tipo grasso e alto, l'opposto di Alberto. La scaraventa a terra, prova a violentarla, lei resiste, Tommy abbaia, lui la sgozza. E poi uccide il cane. Il video arriva anche ai giornalisti. Così non ci saranno più dubbi: Alberto è innocente. Per alcuni giorni nessuno ne dubita, anzi in molti gli stringono la mano. Però sente ancora una patina di diffidenza intorno a sé. Su Facebook, su Twitter, sui blog cominciano a circolare strane teorie: che il padre di Alberto era massone, che qualcuno lo ha voluto proteggere, che il video è una montatura, basta guardare le ombre e si capisce che è un falso. A centinaia, a migliaia, condividono questa teoria, perfino un parlamentare, c'è un'interrogazione al Senato. Alberto sente che la patina di diffidenza sta aumentando, in ufficio lo guardano in modo strano, le ragazze non gli sorridono più. È tutto così evidentemente falso, un video dimostra che non è l'assassino, ma Alberto si sente impotente di fronte all'onda, su Twitter compare anche l'hashtag #ilfigliodelmassonedevepagare. Alberto parte, va a New York, conosce una ragazza in un bar, la porta in albergo. Fanno l'amore, ma al mattino, quando si risveglia, non la trova più. Vede che ha usato il suo iPad, nella schermata c'è Google, lei per curiosità ha cercato il nome del ragazzo con cui aveva trascorso la notte, sono uscite decine di notizie su un omicidio ed è fuggita. Alberto torna in Italia, ma quella patina di diffidenza ora è soffocante. Prende una corda e s'impicca. Il giorno dopo un giornalista coscienzioso scrive un bell'articolo sull'ingiustizia subita da Alberto. Un blogger anonimo, invece, posta una ricostruzione velenosa, con la teoria del video contraffatto, delle trame oscure: «Vedete, si è ucciso, dunque era colpevole». L'articolo del giornalista coscienzioso viene condiviso 345 volte su Facebook e Twitter. Quello del blogger anonimo 1.232.009

giovedì 26 giugno 2014

i corti che escono su move 11/ l'agenzia di viaggi

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

L'agenzia di viaggi Anche oggi l'aria condizionata nelle due ali dell'agenzia di viaggi che si affacciano sul corso è troppo alta. «Un disastro, non si riesce a regolarla», si scusa una ragazza bruna, gli occhiali troppo sottili per il cerchio del viso. Di fronte è seduto un uomo dai capelli bianchi, radi ma ben pettinati. Ogni tanto si passa la mano sulla testa, per essere certo che non vadano fuori posto. Ha un completo chiaro di lino che ha vissuto tempi migliori, una cravatta azzurra su una camicia bianca e risponde: «Non si preoccupi. Comunque, come le dicevo l'altro giorno i tre resort che mi ha proposto, a Hurgada, sembrano belli. È difficile scegliere. Sa, a mia moglie piace il mare, ma vorrebbe anche spendere un po' di tempo in piscina». «Guardi, per la piscina tutti i nostri clienti mi hanno parlato molto bene di questo» e indica un depliant che riproduce foto di una coppia di giovani circondati da tavoli con frutta e bevande e sullo sfondo una sterminata distesa di acqua blu cobalto. «Ma non è più adatto a ragazzi? Mia moglie e io non abbiamo nulla contro i giovani, per carità, ma non vorremmo trovarci fuori posto». «No, stia tranquillo, è uno stupendo resort con gestione italiana, anche la cucina vedrà è fantastica, si mangia davvero bene». «Allora vada per questo, penso che a mia moglie piacerà. Senta, sono preoccupato per il volo? Sa, questi charter sono sempre una scommessa. E se optassimo per un volo di linea?». «No, mi dia retta, con il charter spende meno. E questa è una compagnia molto affidabile. Non ha mai avuto problemi. Si fidi». «D'accordo, in fondo in tanti anni con la vostra agenzia non ho mai avuto delusioni. A parte quella volta in Guatemala...». «Eh, lo so, me l'ha raccontato mio padre, ma non potevamo prevedere dieci giorni di acquazzoni». «Lo so, lo so» sorride. Dalla scrivania a fianco l'altra impiegata lancia uno sguardo di commiserazione alla collega, come dire «certo che questo cliente è proprio noioso». «Senta, vuole bere qualcosa intanto che le preparo tutti i documenti? I suoi dati li ho. Se vuole posso offrirle un tè freddo o del caffè». «Ma no, non si disturbi. Semmai passo dopo a prendere i documenti. Prima pago, ecco la mia carta di credito». Mentre aspettano che la macchinetta della carta di credito stampi la ricevuta, l'uomo spiega: «Ora vado in libreria a comprare una guida dell'Egitto. Lo so, mi prenderà in giro, la Lonely Planet per andare in un resort è eccessiva. Ma a noi piace viaggiare informati, ci conosce». «Vi conosco bene, avete fatto viaggi stupendi. Ormai avete visto tutto il mondo». Ridono, poi il signore saluta e se ne va. L'altra impiegata allarga le braccia: «È proprio pignolo, questo. Una brava persona per carità, però che palle». «Tu sei nuova, altrimenti lo conosceresti. Da quando papà aprì l'agenzia, lui e la moglie sono stati i nostri migliori clienti. Guarda, ti faccio vedere una cosa, è uno schema che mi ero preparata tempo fa. Questa è la lista di tutti i viaggi che hanno fatto dal 1980 a oggi. Vedi? Perù, Australia, Tahiti, Messico, Marocco, Cambogia... Ogni anno un viaggio differente, quando erano giovani cose più avventurose, poi con il tempo più tranquille. Papà mi ha spiegato che sono sempre stati viaggiatori attenti, studiano le destinazioni, gli itinerari. In gamba, non superficiali». «Ma scusa, tu schedi tutti i clienti?». «No, c'è una ragione se l'ho fatto. Cinque anni fa mi arriva la segnalazione della compagnia di viaggi a cui c'eravamo appoggiati. Mi spiegano: i tuoi clienti non si sono visti. Chiamo il signore a casa, lui non mi risponde. Lascio perdere, avranno avuto dei problemi, penso. Cinque mesi dopo, lo stesso. Lui compra il viaggio, organizza tutto in modo meticoloso, come sempre. Paga e ringrazia, non mi dice nulla della volta precedente, io non faccio domande. Ma poi non vanno. Quando gli chiedo se ci sono stati dei problemi, lui cambia discorso. Ogni quattro o cinque mesi organizza e acquista un nuovo viaggio, paga puntuale, però non vanno mai. Io non capisco, ma non ho più il coraggio di fargli domande. Fino a quando, per caso, dall'agenzia lo vede uscire mia cognata, che fa l'infermiera in oncologia. Mi spiega: sai quello che è appena andato via? Cinque anni fa ha perso la moglie, era ricoverata da me, poverino, erano così innamorati. E allora capisco tutto: lui continua a organizzare meticolosamente i viaggi, li acquista per sé e per la moglie, come se nulla fosse mutato. Io non so cosa fare, mi sembra di rubargli i soldi. Ma alla fine penso che sia giusto assecondarlo. E cerco le migliori offerte, le migliori strutture, come se partissero davvero. Il resort a Hurgada è davvero il migliore, la compagnia aerea sul serio è affidabile. Faccio tutto come se la moglie fosse ancora viva e partissero davvero. Forse sbaglio. Forse no»

sabato 14 giugno 2014

quelli che quando parti ti chiedono la tazza di starbucks

Viaggi e vacanze, voi che presto salirete su un aereo a Ciampino o Fiumicino prima dovete scansare alcune categorie di persone.

di Mauro Evangelisti

La prima: quelli che ovunque siate diretti vogliono imporvi una lista di luoghi che dovete «assolutamente» visitare. Devi «assolutamente» vedere quell’antica casa di legno (sì, 10 ore di volo per una casa di legno), quel fantastico museo di antiche porcellane bulgare (non è esattamente quello che avevi in mente).
Quando tornerete e vi metteranno sotto esame, reagiranno malissimo se risponderete «non ci sono stato»; vi guarderanno schifati, «ma come sei andato a Ibiza e non ha visitato il museo di antiche porcellane bulgare?».

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sabato 7 giugno 2014

i corti che escono su move 10/ il giorno della partita dei mondiali

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di Mauro Evangelisti

Il giorno della partita dei mondiali
La stanza dell'ispettore della questura che li ha convocati è troppo piccola. E fa caldo. Manetti suda, mentre la signora di colore, con un vistoso abito rosso, ha gli occhi umidi. L'ispettore si tira indietro i capelli e riprende a parlare: «Allora, signor Manetti, è la terza denuncia che ci ha presentato per i rumori causati dai vostri vicini. Vedo che qui si gioca a pallone, nel cortile e perfino in balcone, anche quando lei deve dormire. Conferma signor Manetti?». «Confermo. Confermo. È da due anni che va avanti questa storia, io lavoro, faccio il commercialista, devo riposare ogni tanto, no?». «Lei signora come si giustifica? Sa, non so da voi, ma in Italia ci sono regole da rispettare». La signora tira su con il naso, forza se stessa per restare calma: «Lo so e io ho sempre rispettato la legge, lavoro, faccio la cuoca, può chiedere al mio titolare». «Cucina senegalese?» la interrompe l'ispettore. «Ma no, cucina italiana - quasi piange - comunque mio figlio ha dieci anni, a volte gioca, come i bambini di quella età. Però faremo più attenzione. E sto cercando un'altra casa, così il signor Manetti sarà contento». Manetti, rimasto in silenzio e infastidito dai modi dell'ispettore, ribatte: «Guardi, signora che non deve fare un favore a me, ovunque andrà ad abitare ci saranno regole da rispettare».
Il giorno dopo Manetti torna a casa dall'ufficio, con la gamba che come al solito gli fa male, e siede sul balcone a fumare il sigaro. Suo figlio, che abita a Londra, da una settimana non lo chiama. «Telefona più spesso alla madre, ma è lo stesso» riflette. Da dieci anni è divorziato e vive solo. Ormai è tardi per rifarsi una vita. Sul balcone vicino, quello dove abitano mamma e figlio senegalesi, c'è il bambino, Rudy, che lo guarda come in segno di sfida. Poi comincia a muoversi, come in una danza, calcia l'aria, mima i gesti e i movimenti di un calciatore. Senza pallone, in silenzio. Una sottile forma di protesta contro l'intolleranza di Manetti. «Va bene, ho capito, sei molto simpatico» lo applaude sarcastico Manetti. Rudy si ferma, lo fissa e gli risponde: «Non dovevi fare piangere mia mamma. Potevi dare una sberla a me, ma non far chiamare mia mamma dalla polizia». Manetti sente il colpo e chissà perché lo sguardo di Rudy si confonde con quello del figlio, quando era bambino, e di quello da grande, da impiegato nella city di Londra che non chiama quasi mai il padre. «Se proprio lo vuoi sapere - risponde Manetti - quando mio figlio era piccolo aveva delle regole e le rispettava». «Però non viene mai a trovarla». Ma che ne sai tu, nero del cazzo, vorrebbe rispondere Manetti. Ma poi si trattiene e si limita a dire: «Va bene, va bene, comunque tua madre ha detto che cambierete casa, non litigheremo più» e rientra in casa. Accende la tv nuova da 42 pollici che ha appena acquistato perché tra un po' cominciano i mondiali di calcio.
Oggi gioca l'Italia e Manetti sta rientrando a casa. Vuole prepararsi un piatto di spaghetti e stare tranquillo, vada come vada la partita. Ormai gli sono rimasti pochi, pochissimi piaceri nella vita. Mentre fa le scale, sente però in lontananza la voce dei vicini. «O no, ci risiamo» pensa. «Dai Rudy, vieni in casa. Domani la faccio aggiustare la tv». «Domani è tardi, l'Italia gioca adesso». Lo trova seduto sul pianerottolo, con la testa tra le gambe. Manetti lo guarda e infierisce: «Ma che ti interessa a te dell'Italia? Mica gioca il Senegal». Rudy, senza guardarlo, risponde: «Guarda che io sono nato in Italia e in Senegal non ci sono mai stato, se proprio lo vuoi sapere». Manetti entra nel suo appartamento, accende la tv, mette sul fuoco l'acqua a bollire e poi si vede, per caso, allo specchio. E osserva un signore di sessantacinque anni che si appresta a guardare la partita. Un bambino, la fuori, invece non la può vedere. «Merda». Esce, nemmeno rivolge la parola a Rudy e suona alla porta della vicina. Lei apre, lo squadra e sospira: «Che ho combinato stavolta? Guardi che Rudy ora lo faccio rientrare e comunque non sta facendo rumore». «Senta, lei sostiene di essere una brava cuoca, no? Facciamo un accordo. Non mi va di cucinare. Se lei prepara gli spaghetti, Rudy e io ci guardiamo la partita sul mio televisore nuovo». Lei è diffidente, Manetti le sorride per dire "per una volta facciamo una tregua". Quindici minuti dopo la vicina senegalese è nella cucina di Manetti a preparare penne spaghetti al ragù, Manetti si sente un re sul divano ed è contento perché ha già capito che Rudy di calcio ne capisce e quindi avrà qualcuno con cui commentare seriamente la partita. E dalla cucina sta arrivando un buon profumo. Poi Rudy si alza in piedi, c'è l'inno dell'Italia, lui lo canta. Stanno cominciando i mondiali.

sabato 24 maggio 2014

i corti che escono su move 9/ il recuperatore

copia e incolla da move magazine


di Mauro Evangelisti


Il recuperatore


Questa volta è stato molto complicato. Era una persona molto infelice, non aveva motivi per tornare indietro. «Sono solo, a chi serve che io ritorni?». Io gli ho spiegato semplicemente che era stata sua madre a chiedermi di intervenire. Dunque qualcuno che sentisse la sua mancanza c'era. Alla fine l'ho preso per mano e si è risvegliato. Sua madre mi ha ringraziato, ha pianto. Ha pagato il mio compenso, né troppo alto, né troppo basso, ma necessario perché in qualche modo devo pur mangiare. Però per tutta questa sofferenza altrui che sono costretto a condividere dovrei farmi pagare milioni. Forse non c'è prezzo. Eppure, dovrebbe essere semplice, dovrebbero essere contenti che qualcuno vada a salvarli, a riportarli indietro: invece no, sono pochissimi i casi in cui ho trovato la gioia cristallina di chi voleva tornare. Quasi sempre incontro tristezza e cumuli di frustrazioni, rancori, insoddisfazioni, disperazione che fanno dire a chi vado a riprendere: mi dispiace, non torno. Per questo io premetto sempre molto ai parenti che non c'è garanzia di risultato. A volte non riesco ad attivare il contatto, a volte sono loro a non volere tornare. Certo, può essere che sia una decisione non logica, non razionale, offuscata della situazione in cui si trovano. Spero almeno che sia solo questo.
Il recuperatore, così mi hanno chiamato. Ufficialmente non esisto, nessuno mi conosce salvo un piccolo gruppo di medici che fanno parte di una società segreta sparsa in tutto il mondo e che lavorano nei reparti di rianimazione. Sono loro a chiamarmi, a decidere quando il mio intervento potrebbe essere utile, perché le condizioni fisiche del paziente sono tali da fare pensare che il mio arrivo abbia un senso. Sì, perché io questo faccio: aiuto la persona a uscire dal coma, tenendola per mano stabilisco un contatto, finisco anch'io nel territorio di vita-non vita in cui si trova, le parlo, le spiego quale sentiero percorrere per tornare, per risvegliarsi. A volte ci riesco, a volte non li convinco e sono costretto a tornare da solo. In quei casi, quando è il paziente che decide di restare, ai familiari mento: dico che non sono riuscito a stabilire il contatto, sarebbe troppo doloroso spiegare loro che la persona che amano non li ama abbastanza da tornare vivere.
La settimana scorsa sono stato a Vienna. Mi aveva chiamato uno dei medici della società segreta per un caso semplice, un bambino investito da una macchina. Ho preso per mano il bimbo, che ha sette anni, e il contatto è stato rapido, anch'io ho pensato che sarebbe stato un lavoro poco impegnativo, con i bambini è più facile, hanno un desiderio molto forte di vivere perché non hanno accumulato dolore e delusioni. L'ho trovato in mezzo a un prato (almeno quella è la raffigurazione dell'ambiente che la mia mente ha creato). «Tu chi sei?» mi ha chiesto. «Sono il recuperatore, sono venuto a riprenderti. Sei in coma, sei quasi morto, ma puoi facilmente tornare in vita. Lo vedi quel sentiero laggiù? Percorrilo e tornerai dai tuoi genitori. Vedrai, è semplice». «No, io voglio restare qui. Qui sto bene» mi ha risposto, sorprendendomi. «Perché non vuoi tornare?» ho insistito. «Qui non mi fa del male nessuno». «E chi ti fa del male quando sei in vita?». Lui ha pianto, non è stato necessario che rispondesse, perché quando si crea il contatto, in questo territorio misterioso del coma, io percepisco le sensazioni più forti della persona, è come se esplodessero e finissero dentro di me. E ho capito: non voleva tornare, perché in vita il padre lo picchiava, in modo molto violento, un sadico. È stato così doloroso provare ciò che provava lui, che ho pianto anch'io. «Ti prometto che non succederà più». Il bambino alla fine mi ha seguito, quattro mesi dopo il padre è stato arrestato, la polizia, su segnalazione del medico a cui avevo raccontato tutto, lo ha sorvegliato e, quando ha ripreso a picchiare il figlio, lo ha fermato.
Sono andato a recuperare Gioia, una ragazza di 20 anni, aveva avuto un incidente in macchina, con il fidanzato. Appena le ho spiegato che l'avrei riportata fuori dal coma, ha riso, felice, «non vedo l'ora di riabbracciare Giovanni, il mio ragazzo». Mentre percorrevamo il sentiero, non ho potuto dirle che Giovanni nell'incidente era morto, non mi avrebbe mai seguita. Per fortuna quando si riprendono dimenticano il nostro colloquio.
Ecco, dopo tutto questo dolore, sono io ora a non voler tornare. L'altro giorno il padre del bambino è uscito di prigione, non so come abbia fatto, ma ha capito che c'entravo con il suo arresto. È venuto a cercarmi e mi ha sparato. Ora sono io in coma, una parte di me mi sta indicando il sentiero. Ma c'è un'altra parte, invece, che vuole restare, lontano da quei cumuli di sofferenza. Ancora non ho deciso davvero cosa farò.

domenica 18 maggio 2014

i corti che escono su move 8/ l'esplosione e il silenzio

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

L'esplosione e il silenzio

Gianni pensava ai genitori. Al fatto che non si parlassero più da trentacinque anni, non si erano più incontrati dal giorno del divorzio. Né la madre, né il padre gli avevano mai spiegato perché si erano lasciati due mesi dopo la sua nascita. Da bambino era normale non parlarne, era una prassi che alla domenica Gianni andasse con il padre che lo aspettava sotto casa. E anche quando era cresciuto e loro si erano trasformati in due anziani, l'argomento non esisteva. Gianni aveva udito le parole «tuo padre» pronunciate dalla madre non più di tre o quattro volte nella sua vita. Pensava a tutto questo, Gianni, mentre il giudice saliva in macchina, lui diceva meccanicamente «tutto a posto, dottore?», la bomba esplodeva e mezz'ora dopo tutti i siti titolavano «strage di mafia, muore un magistrato e tre uomini della scorta». Gianni era uno degli uomini della scorta.
Sono trascorsi cinque giorni dall'esplosione. Gianni è una foto adagiata sopra una delle quattro bare, in una chiesa sudata e riempita dalle autorità, con la gente fuori che aspetta solo il momento per applaudire quando escono le bare, fischiare quando escono le autorità. I funzionari del governo hanno assegnato a Maria e Antonio, i genitori di Gianni, i posti su una panca in prima fila, proprio accanto alla madre, la moglie e la figlia di dodici anni del magistrato. Gianni non si era mai sposato; nella chiesa ci sono almeno quattro sue ex, perché con il suo sguardo malinconico e ironico piaceva molto alle donne, soprattutto dopo che le aveva lasciate.
Maria e Antonio hanno parlato al telefono, un'ora dopo l'esplosione. Era stato Antonio a comporre il numero della casa dove Gianni viveva con la madre.
«Pronto» aveva risposto Maria, singhiozzando.
«Sono io. Hai visto la televisione?».
«Sì. E mi hanno già chiamato dal Ministero dell'Interno. Lui era lì. Non ci sono speranze».
«Ciao».
«Ciao».
Non si erano detti altro. Non si erano più cercati. Ora le regole del cerimoniale li costringe a stare vicini, lei che nasconde le lacrime dietro agli occhiali scuri che le aveva regalato Gianni («ma questi sono per una ragazzina, io ormai sono una vecchia» gli aveva detto), lui con il completo scuro che aveva comprato con il figlio quando era andato a trovarlo a Palermo («questo lo indosserò nella bara» aveva detto con il solito humor nero, Gianni gli aveva risposto con uno scappellotto scherzoso ribattendo «quante cazzate dici»).
La messa è accompagnata da colpi di tosse, urla e pianti, Maria e Antonio non si guardano, non si parlano. Fissano la bara. Quando è arrivata, però, Maria è stata costretta a inquadrare Antonio e ha avvertito un dolore al cuore: non si era mai resa conto quanto Gianni assomigliasse al padre. La corporatura massiccia, lo sguardo nero, le labbra grosse. L'immagine di Antonio, ora, non è quella dell'uomo invecchiato che non vedeva da trentacinque anni, ma di come sarebbe stato il figlio tra qualche decennio. Antonio, all'arrivo di Maria, non era riuscito a evitare di notare quanto fosse attraente la giovane poliziotta che la stava accompagnando, e si era vergognato di se stesso, vecchio e maiale, aveva pensato, anche nel giorno del funerale figlio. Poi, però, aveva decifrato nel volto di Maria, rinsecchito, i segni della ragazza di trentacinque anni prima. E aveva sentito qualcosa dentro, il senso di perdita, di errore fatale, ma anche di sollievo, perché in fondo era stato meglio che si fossero lasciati da giovani, perché sarebbe stato insopportabile vedere Maria invecchiare, cambiare.
«Ciao».
«Ciao» si erano detti. Poi non avevano più parlato.
Dopo il funerale, le foto, gli abbracci dei ministri. Al ritorno a Roma, un collega di Gianni era andato a prenderli all'aeroporto. In aereo erano rimasti seduti vicini, ma entrambi avevano dormito, evitando per quanto possibile il contatto con il corpo dell'altro. Durante il volo lei aveva chiesto a lui, mostrandogli una bottiglietta d'acqua: «Vuoi bere?». «No, ti ringrazio». Non avevano detto altro. Ora sono sull'auto del collega Gianni, imbarazzati rispondono a monosillabi alle sue domande.«Ecco, questo è il mio palazzo, mi lasci pure qui. La ringrazio moltissimo». Maria scende senza dire nulla ad Antonio. Il collega di Gianni l'accompagna alla porta, le stringe la mano, poi torna da Antonio che aspetta in macchina. «Lei signor Antonio abita vicino al Gemelli, no?». «Sì, certo. No, anzi, perdonami perché sei stato gentilissimo, ma lasciami scendere qui, voglio camminare un po'. Dopo prendo un taxi». «Ma è sicuro?». «Davvero. Ti ringrazio ancora». Stringe con una mano la spalla del collega di Gianni, scende e corre verso il palazzo di Maria. Il portone è aperto, Maria è in fondo al corridoio, fissa l'ascensore, ma non sale. Sta piangendo. Antonio corre da lei. L'abbraccia. Si abbracciano. Non dicono nulla.

venerdì 25 aprile 2014

giovedì 24 aprile 2014

i corti che escono su move 7/ la filastrocca

copia e incolla da move magazine 

di Mauro Evangelisti

La filastrocca
Quando la rivoluzione si trasformò in privilegi, violenza e persecuzione Ana decise che doveva andarsene dal paese. Non ne parlò con Antonio, il suo uomo e il padre dei suoi figli: capì che non l’avrebbe seguita. Anzi, l'avrebbe denunciata. Avevano creduto nel cambiamento e forse lo amava ancora, ma Ana organizzò la fuga. L'amico dell'ambasciata di un paese straniero le disse che stava per andarsene, che tutti i diplomatici lasciavano il paese: se voleva, poteva partire con lui. Fu allora che decise di portare con sé Julia, che aveva solo cinque anni. Avrebbe lasciato con il padre Mathias, cinque anni di più. Fu una decisione dolorosa, per Ana fu come tagliarsi un braccio. Ma non ebbe scelta. L'amico dell'ambasciata le disse che sull'elicottero c'era soltanto un posto. Però non fu l'unica ragione: inconsciamente, trovò ingiusto privare il suo uomo di entrambi i figli e Mathias era molto legato al padre. Alla sera, prima della fuga, strinse forte Mathias. «Che c'è mamma?». «Nulla, non ti preoccupare. Dormi».
Julia oggi ha 28 anni e sta dormendo su un Airbus 330. «Viaggia per vacanza o per lavoro?» le ha chiesto un ragazzo all'imbarco. «In vacanza» ha mentito. Non le andava di raccontare che torna per la prima volta nel paese in cui è nata, che una settimana fa è stata al funerale della madre, che deve cercare Mathias, suo fratello, che non ha mai risposto alle sue lettere e a quelle di Ana. Vuole dirgli che sua madre è morta e che l'ultimo pensiero, come il primo di ogni mattino, è stato per lui. Per lei Mathias è poco più del ricordo di un sorriso e di una filastrocca che cantavano insieme. Loro padre morì due anni dopo la fuga di Ana. Fu fucilato dal regime che lo giudicò un traditore. Mathias è cresciuto con lo zio, fedele al regime.
Quando esce dall'aeroporto Julia si mescola ai turisti. Si fa portare da un tassista nel centro della capitale. Lungo la strada riconosce una casa, cadente, vicino alla quale quattro vecchi stanno giocando a domino. Lì è nata. Domanda ai vecchi se conoscono Mathias, loro si guardano in faccia, sorpresi e spaventati: «Non abita più qui, di sicuro lo trovi al partito. Ma non lasciano entrare i turisti». Al mattino, nella piscina dell'hotel, fa amicizia con il barista, gli allunga cento dollari e si fa raccontare la storia di Mathias. «Lo conoscono tutti. È l'uomo nuovo del regime. Uno pericoloso, matto. Mio cugino conosce la segretaria. Se vuoi posso darle un biglietto». Julia mette in una busta la foto della madre distribuita al funerale. Vi scrive: «Rose rosse, rosse gialle, i bambini della valle...». È l'inizio della filastrocca che cantavano da bambini.
Tre mesi dopo Julia è su una jeep, con il fratello che indossa la divisa militare. Una settimana dopo l'invio del biglietto, in hotel si erano presentati dieci soldati. L'avevano bendata e portata in una caserma. Un uomo dalle spalle larghe e i capelli lunghi le aveva tolto la benda. «Sono Mathias». Le aveva stretto la mano. Nessun abbraccio. «Nostra madre è morta, un tumore. Perché non hai mai risposto alle sue lettere?». Lui aveva alzato le spalle, preso una bottiglia di rum e versato da bere. «Non avevo nulla da dirle». Si era sentita l'esplosione. Spari. Urla. Mathias aveva guardato negli occhi Julia: «Abbiamo cominciato, non ti preoccupare. Le cose stanno cambiando, qui, qualcuno si farà male». In poche ora era tutto finito, quelli che avevano controllato il regime per 25 anni erano stati uccisi o arrestati. Avevano preso il potere i quarantenni. C'era un nuovo comandante: Mathias. Julia era stata ospitata nella sede presidenziale, quasi prigioniera. Vedeva il fratello impartire ordini, parlare in tv («la rivoluzione continua»). Rappresaglie, fucilazioni. «Falli smettere» aveva chiesto al fratello. «È necessario» le aveva risposto, addentando una bistecca. Lei era in piedi, lui aveva bevuto un bicchiere di vino rosso, si era pulito il viso e poi, quasi a freddo, le aveva chiesto: «Perché? Perché nostra madre mi ha lasciato qui? Perché non ha portato anche me?». Julia avrebbe voluto spiegare le ragioni di Ana, ma sapeva che sarebbe stato inutile, si era voltata ed era tornata nella sua stanza. Ora sono sulla jeep, Julia ha chiesto di seguirlo per chiedergli di lasciarla partire. «Non c'è problema, non sei prigioniera». È le accarezza il volto, primo gesto di tenerezza da quando si sono rivisti. «Se la mamma avesse portato anche me, ora sarei un impiegato grasso e scontento. Meglio così». La scorta frena, spari. Un agguato. Restano a terra quattro donne e quattro uomini, solo un soldato è ferito. Dietro un muro, tremanti, due bambini, un maschio e una femmina. I soldati stanno per sparare, «no» urla Julia. «Fermi» acconsente Mathias. Per una settimana i due bambini restano nell'appartamento con Mathias e Julia. La bimba si chiama Lucia, ha 5 anni, il maschio, Fernando, ne ha 8. Tra una settimana Julia partirà. «Ti prego, Mathias, procura loro dei documenti falsi, lasciali venire con me. Qui non hanno nessuno». Mathias scruta i bambini lontani: «No, portati via solo Lucia. Fernando resta qui con me».

giovedì 10 aprile 2014

i corti che escono su move 6/ Summer coming soon

copia e incolla da move

di Mauro Evangelisti

Summer coming soon


Questa è la pistola. È facile: l'avvicini alla sua testa, premi il grilletto, come nei film, ed è tutto finito. Ci sarà sangue, ma non ti preoccupare, puliamo noi. Non troveranno il corpo, nessuno saprà nulla. È questo che vuoi, no? Il video lo hai visto, no? Questa merda non si è accorto che era sotto una telecamera di sorveglianza di una banca. Non chiedermi come abbiamo fatto a recuperare la registrazione. Noi siamo più bravi della polizia. Questa è la pistola, è facile. Per un quarto d'ora non riprenderà i sensi. Hai quindici minuti per decidere, se non lo ammazzi tu, noi lo liberiamo. Ora ti lasciamo solo, torniamo tra poco. Per pulire o per liberare l'uomo che ha stuprato e ucciso la tua bambina. Fosse stata mia figlia io non avrei dubbi. Ma è giusto che sia tu a decidere.

Marcos esce dalla stanza, seguito dai due ciccioni che gli fanno da guardaspalle. Sento che salgono le scale, fanno rumore. A Marcos è sempre piaciuto portare stivali da cowboy, anche se nel nostro paese fa un caldo da impazzire e dicono che un'estate così calda non ci sia mai stata. Quando hanno trovato Clara nel vicolo, con la gonna strappata, il sangue, il viso da angelo deturpato a pugni, la mia bella vita trasparente da avvocato, difensore dei diritti civili e dei più deboli, è finita. Sapevo che la polizia non avrebbe mai trovato l'assassino. Il castello di valori solidi della mia vita stava vacillando. Non devi pensare alla vendetta, l'odio non è la soluzione, la pena di morte non è la risposta: questo ripetevo sempre alle vittime di abusi, di prepotenze e violenze. Ora che dall'altra parte della storia c'ero io, non sapevo controllare l'odio. Volevo vendetta. Potevo fare solo una cosa: cercare Marcos. Non avrei mai pensato che sarebbe successo.

Guardo il viso lungo e liscio della bestia: attorno all'occhio destro è rosso, ma lo hanno addormentato con una puntura, non con le botte. Ha gel nei capelli e una maglietta con scritto Summer coming soon. Ha diciotto anni, quella notte era ubriaco e drogato. Avvicino la pistola alla sua bocca.

Per dieci anni Marcos è stato il mio migliore amico. Già allora, quando eravamo non più bambini ma non ancora adolescenti, eravamo differenti. Lui prepotente e temuto, spavaldo, io più alto, più chiuso. Non ero un vigliacco, ma venivo da un'altra regione e il primo giorno a scuola alcuni mi presero di mira. Solo battute e qualche sgambetto, ma capii che la situazione sarebbe peggiorata. Poi un giorno il mio sguardo incontrò quello di Marcos e ci sentimmo fratelli. Non so perché, è uno degli strani misteri della vita. Parlammo della regione da cui provenivo, del calcio, dei mondiali che si sarebbero giocati quell'estate. Da allora, naturalmente, nessuno osò avvicinarsi a me. Marcos non dovette mai difendermi, ma a scuola, in paese, ovunque, tutti sapevano che ero suo amico. Seguirono due vite diverse: lui la banda, lo spaccio, i soldi; io lo studio, l'università, il fidanzamento con Ada. Eppure, malgrado le strade si allontanassero, ogni settimana trovavamo un giorno per andare al mare insieme, parlare, passeggiare, cantare, ci raccontavamo le nostre vite e Marcos con me perdeva la sua predisposizione alla violenza e al potere, per il tempo che trascorrevamo insieme era uno come tanti.

Spingo la canna dell'arma sulle labbra del ragazzo, ancora incosciente. Accarezzo con il dito il grilletto, ne provo, con prudenza, la resistenza. Poi guardo la maglietta, azzurra, la scritta Summer coming soon.

Fui io a tradire Marcos. Avevamo vent'anni, passeggiavamo in spiaggia e mi parlava della sua nuova fidanzata. Poi si fermò, mi guardò negli occhi, e mi disse, a bassa voce: «Ieri ho ucciso un uomo, era la prima volta». Poi scrutò la sabbia e aggiunse: «Mi è piaciuto». Io aspettai qualche secondo, realizzai chi fosse veramente Marcos, lontano dall'immagine dell'amico che mi ero costruito anche se lui non mi aveva mai nascosto nulla. «Non voglio più vederti, non cercarmi più. Siamo differenti». Non mi ha più cercato, per vent'anni non l'ho più visto. Una settimana fa sono andato a chiedergli aiuto, mi ha risposto a monosillabi mentre affettava una mela. «Ti aiuterò, troveremo quella bestia». Mentre uscivo l'ho sentito dire: «Avvocato dei diritti civili, se in questi anni nessuno ti ha torto mai un dito...sai chi ti ha protetto».
Prendo un lembo della maglietta con scritto Summer coming soon, tento di strapparla, non ci riesco, il corpo si alza e ricade come un pupazzo.

Marcos sente il colpo di pistola. Entra. Vede il ragazzo ancora immobile, ancora addormentato, ma vivo. Per terra il corpo dell'amico, l'arma a pochi centimetri, sangue dappertutto, la testa spappolata. Corre, lo abbraccia. È tardi.

venerdì 28 marzo 2014

Trolley, il rumore della vita che corre a Roma

di Mauro Evangelisti

Ecco, li senti arrivare dall’ormai tradizionale rumore del trolley sui sampietrini, che non furono ideati pensando che un giorno ci sarebbero state delle valigie con le ruote. E a vagare, con uno spicchio di vita chiuso in fretta dentro un trolley non sono solo i turisti, sono le nostre esistenze di corsa. Quelle che miracolosamente incastrano il trolley in uno scooter, corrono a prendere treni dell’alta velocità. Si precipitano - tlac-tlac-tlac - ad appuntamenti di lavoro e dentro al trolley hanno il tablet con l’altro pezzo di vita, quello a metà tra nuvola e memoria interna, perché ci serve la biancheria da portare a lavare dalla mamma o in tintoria ma anche quel file che devi avere sempre con te. 

giovedì 27 marzo 2014

i corti che escono su move /5 la colpa e la felicità

copia e incolla da move

di Mauro Evangelisti

La colpa e la felicità Ho ucciso un uomo. No, non gli ho sparato, non l'ho accoltellato, non l'ho pestato. L'ho ucciso per pigrizia. Ecco, forse è il caso che spieghi meglio cosa è successo, mi aiuterà a fare pace con me stesso. Forse. Ero fermo su un marciapiedi, indeciso se tornare a casa per prendere l'ombrello, visto che il cielo era scuro, e preoccupato perché la batteria del cellulare era meno carica di quanto pensassi. La mente era occupata da pensieri che deviavano l'attenzione. Un uomo si è avvicinato e mi ha chiesto: «Scusi, dov'è via del Giglio?». Io ho avuto come una scossa perché qualcuno aveva interrotto il flusso dei miei pensieri e, inconsciamente, ho provato fastidio. Ho risposto brusco: «Non lo so». Poi, per non risultare maleducato ho aggiunto: «Mi spiace». Lui ha alzato le spalle: «Non si preoccupi. Chiedo al bar qui di fronte». Ma io so dov'è via del Giglio. Semplicemente, sul momento, stordito per quella richiesta inattesa mentre tentavo di risolvere i miei problemi, tra ombrello e batteria del cellulare, ho rifiutato lo sforzo di elaborare una spiegazione per guidare quell'uomo fino a via del Giglio. Lui si è allontanato in fretta, si è voltato, dopo le mie scuse, rassicurandomi che avrebbe chiesto al bar di fronte, è sceso dal marciapiedi per attraversare la strada, ed è stato travolto da un bus. Ho visto il corpo trascinato e schiacciato dalle ruote, ho sentito le urla di altri che hanno assistito alla scena, sono andato a soccorrerlo, ho chiamato l'ambulanza, atteso che lo liberassero, udito il medico dire che non c'era nulla da fare, raccontato ai vigili urbani cosa avevo visto, lui che andava di fretta, che scendeva dal marciapiedi, che attraversava senza guardare, il conducente del bus che non ha fatto in tempo a evitarlo. I vigili mi hanno detto che si chiamava Gilberto, aveva 39 anni, era di una città vicina ed era diretto in via del Giglio per incontrare il proprietario di un'azienda che gli aveva offerto un posto da dirigente. «Che sfortuna» ho commentato con il vigile. Ma non gli ho detto - non l'ho detto a nessuno - che l'uomo mi aveva chiesto dove fosse via del Giglio, che se gli avessi risposto lui non avrebbe tentato di raggiungere il bar. E non sarebbe morto. Ora porto con me questo fardello, questa convinzione di avere causato la morte di un uomo, tutto a causa di una reazione istintiva di fastidio ingiustificata. Ieri ho preso la macchina e ho guidato fino alla città della vittima dell'incidente, sono andato al funerale. Ho visto una signora curva, capelli bianchi, piangere. «E’ la madre», mi ha spiegato uno seduto vicino a me in chiesa. Poi si è avvicinata alla bara una donna con i capelli castani e lisci, un po' robusta, fianchi larghi, ma dal viso intenso e gli occhi scuri. «È la moglie. Poverina, è rimasta sola, non hanno figli». Non dimenticherò il viso di quella donna. Da un mese non vado più a lavorare. Il medico mi ha firmato i certificati, lo fa perché è un amico, ma anche perché vede che sto male. La sera, prima di addormentarmi, ripenso a quel susseguirsi rapido di attimi, a come avrei potuto modificare il flusso degli eventi. Sarebbe bastato che avessi ricaricato durante la notte il cellulare, per non essere distratto da quella preoccupazione, e dunque avrei spiegato a Gilberto dov'era via del Giglio. Sarebbe bastato che avessi preso l'ombrello prima di uscire. Ma sarebbe stato sufficiente molto meno, per cambiare la concatenazione degli eventi, fossi uscito di casa un secondo prima o dopo, lui non mi avrebbe chiesto l'informazione e non avrebbe deciso di attraversare. Ma semplicemente - è la constatazione che mi fa più male - avrei dovuto rispondergli, dirgli dov'è via del Giglio: lo avrei salvato. Sono trascorsi dodici anni. Un giorno hanno bussato alla porta del mio appartamento. «Le non mi conosce, ma vorrei parlarle», mi ha detto una voce di donna. Stavo per mandarla via, poi ho guardato dallo spioncino: era il viso della donna del funerale, era il viso della moglie di Gilberto. Mi ha detto che era risalita a me tramite un amico dei vigili urbani, che voleva chiedermi un grande favore, che le parlassi dell’incidente di Gilberto, poiché ero l'ultimo ad averlo visto. Abbiamo parlato a lungo, anche a lei ho raccontato solo una parte della storia, non le ho detto che tutto era successo per colpa mia. Cominciammo a frequentarci, ci siamo fidanzati e sposati, sono nati due figli e siamo felici, io sono felice. La mia felicità è stata originata dalla morte di un uomo che io stesso, per un gesto di pigrizia, ho causato. Non c'è giustizia in questo mondo.

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