venerdì 3 ottobre 2014

i corti che escono su move /16 l'uomo che andava ai funerali

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

L'uomo che andava ai funerali

La prima volta successe quando aveva dodici anni. Piero era in parrocchia a cercare don Franco, per pagargli la gita sulle Dolomiti di due settimane prima. Suo padre aveva ricevuto lo stipendio e gli aveva dato i soldi per saldare il conto. Solo che don Franco non c'era. Prima suonò al suo appartamento, vicino alla parrocchia, poi andò al campo da basket, ma c'era solo un pallone sgonfio e un ferro penzolante che quasi circondava il sole al tramonto. Provò nella sala del ping pong, con la banconota da cinquantamila lire stretta in mano. Nulla, era agosto e c'era il deserto, il quartiere si era svuotato, nessuno andava in parrocchia. Poi, entrò in chiesa e fu abbagliato: la bara di legno scuro e le maniglie dorate, tre corone di fiori, la maglia da ciclista adagiata vicino perché la bicicletta era la passione del defunto. Don Franco stava spiegando, dal pulpito, quanto era legato a lui, lo aveva visto bambino, accompagnato dai genitori per la prima comunione. E lo aveva sposato vent'anni dopo. Dalla prima fila la vedova iniziò un singhiozzo pudico. Con una mano stringeva il capo di un bambino. Poi quattro uomini, non a loro agio nei completi scuri, sollevarono la bara e la portarono fuori, lentamente. «Sono gli amici e un cugino» gli sussurrò a un orecchio una vecchia. Uno dei quattro, il più grosso, non riuscì ad arginare le lacrime, e dondolava, con la bara sulla spalla. È tutto magnifico, pensò Piero. Da quel giorno, ogni volta che c'era un funerale, correva in parrocchia. Gli piaceva assistere a quell'ultima rappresentazione di una vita finita, le lacrime, i ricordi, l'isteria, la rabbia, la sconfitta, la malinconia. Giovani che piangevano vecchi perché con loro se ne andava anche la loro giovinezza. Vecchi che piangevano vecchi perché insieme avevano costruito ricordi e capivano che presto sarebbe toccato a loro. Vecchi che piangevano giovani perché ora non c'era più un senso. Funerali affollati di gente sudata, funerali con la chiesa semivuota perché chi era morto solo. Don Franco consolava e celebrava, con parole nuove ma anche ripetute. Finché Piero assistette al funerale di don Franco. Piero, tra un funerale e l'altro, ebbe una vita normale, perfino brillante: si laureò in economia, cominciò a lavorare da un commercialista, si innamorò della figlia e la sposò. Vacanze, cinema, partite di calcio, la sera la tv, la nascita del bambino, la casa nuova. Solo che ogni tanto Piero si assentava, per un giorno, con scuse sempre differenti, e andava nelle città vicine. In cerca di funerali. Avesse continuato ad assistere ai funerali nella parrocchia vicino a casa, sarebbe stato notato, lo avrebbero bollato come uno strano. Allora lui leggeva le cronache locali dei quotidiani - insegnante muore in motorino, ex sindaco stroncato da un infarto, giovane promessa della pallavolo finisce fuori strada -, sceglieva le storie più interessanti e andava ai funerali. A volte si limitava ai necrologi e sceglieva funerali di morti comuni, anziani morti di vecchiaia. Magnifico, pensava. Ogni volta come la prima volta. Trovava nei funerali una intensa vibrazione sul significato delle vite, anche quelle più insignificanti. Finché un giorno iniziò ad annoiarsi. Aveva 45 anni, sua figlio andava già al liceo e quasi non parlava con lui, sua moglie era distante. Ma soprattutto i funerali cominciarono a deluderlo, gli sembravano tutti uguali. E si accorse che non aveva molto altro da fare. Lo studio da commercialista macinava denaro in automatico, lui trascorreva le giornate camminando senza meta e desideri. Quando il pallone amaro che gli era cresciuto in gola stava per scoppiare, decise di partire. Inventò un'altra scusa, salì su un aereo e si ritrovò a bere alcol come non aveva mai bevuto in un paese a dieci ore di volo da casa sua. Fece amicizia con un altro italiano, perfino più disperato di lui, che all'alcol aggiungeva la droga. Un giorno Piero assistette a un incidente stradale, l'auto dell'italiano finì fuori strada e bruciò. Successe rapidamente: allungò 1.000 dollari a un poliziotto che conosceva, gli chiese di consegnargli il passaporto intonso, caduto lontano, dell'amico carbonizzato. E con altri 500 dollari lo convinse a mettere, nello stesso punto, il suo passaporto. Piero e l'italiano si assomigliavano. Tornò in Italia con il passaporto dell'amico, mentre i giornali e i siti Internet italiani scrivevano che un italiano - Piero - era morto carbonizzato in un incidente nel paradiso delle vacanze. Si rase a zero, si lasciò crescere la barba, comprò degli occhiali da sole. Corse nella parrocchia, dove tutto era cominciato. C'era un funerale e sui manifesti c'era la sua foto. C'era sua moglie che piangeva, il figlio consolato dai compagni di classe, il sacerdote che dal pulpito diceva che Piero era sempre stato una brava persona, che veniva spesso in chiesa. In molti, tra il pubblico, facevano sì con la testa. Piero stava assistendo al suo funerale. È magnifico.

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