lunedì 30 marzo 2015

i corti che escono su move magazine 26/ una brutta giornata

di Mauro Evangelisti 

Una brutta giornata 


Quando l'auto si è fermata, senza neppure starnutire, nel mezzo del nulla, ho pensato: non è possibile. Gli 82mila euro pagati rendevano irrealistico che morisse dopo neppure trecento chilometri. Pensare che questo viaggio non lo dovevo fare, che mi serviva solo a vincere la tensione e a godermi la macchina nuova. E ora cammino verso la cittadina più vicina perché siamo talmente lontani da tutto che nessuno ha mai pensato di portare da queste parti il segnale del cellulare. Cammino da 20 chilometri e, se i miei calcoli sono giusti, ne dovrò percorrere altri 20. Ma che altro potevo fare? In un'ora di attesa, in questo buco del culo tra sassi e sparuti alberi malconci, non è passato nessuno. Ed ecco, improvvisa, imprevista, la pioggia, prima lenta, poi rapida e copiosa. Non c'è nulla sotto cui ripararsi, non ho nulla con cui ripararmi: ho lasciato l'impermeabile e l'ombrello in macchina. Avanzo come un fantasma dal nulla verso il nulla con le scarpe italiane di cuoio e il completo grigio confezionato da un sarto tronfio di Hong Kong. Urlo, bestemmio. La pioggia risponde e diviene più violenta: un bombardamento, così non l'avevo mai vista. Non so se fermarmi o continuare a camminare, entrambe le scelte sono sbagliate. Come diavolo ho fatto a cacciarmi in questo guaio, «in un modo o nell’altro ne uscirai - mi dico - e tra un mese riderai di tutto questo».

Sento un rumore, un rombo che sovrasta perfino lo scroscio dell’acqua. Mi volto e vedo dei fari, è un camion, corre, forse sono salvo. Mi giro, agito le braccia, grido, ma temo di apparire pazzo, mostro che sono solo una brava persona nei guai. Il camion non rallenta e mi supera. «Figlio di puttana» urlo. Il camion inchioda, anche se fatica a fermarsi sull'asfalto bagnato, fa marcia indietro. Malgrado la pioggia, si abbassa il finestrino dalla mia parte. Al volante vedo un cumulo di carne tatuata, una faccia grande il doppio della mia, i capelli bianchi legati a coda di cavallo. Forse sono nei guai più di prima. Molto più di prima.
Dieci minuti dopo cambio idea. Sono seduto al fianco della massa di muscoli tatuata e lui mi parla con una voce di velluto, quasi dolce. Mi spiega che non mi aveva visto, si scusa per aver tirato dritto, mi dice che non può tornare indietro a trainare la macchina ma sicuramente nella cittadina qui vicino troverò aiuto, anche se lui va di fretta e dovrò arrangiarmi. «Non importa, basta che arrivo dove ci sono segni di civiltà» gli dico. È in quel momento che sento una specie di rantolo, un lamento, «aiuto» decifro. Il tipo al mio fianco fa finta di nulla, io mescolo il sudore con l'umidità che ha intriso i miei vestiti. Taccio. Con la coda dell'occhio distinguo un fucile dietro il suo sedile. Il lamento ora diviene più forte. «Aiuto». Impossibile ignorarlo. «Ti devo spiegare» mi sussurra il tipo. «No, tranquillo, a me basta che mi lasci scendere in città, non mi devi dire nulla». «Dietro sono due, pensavo fossero entrambi morti. Gli ho sparato». Deglutisco. Lui continua: «Quando sono tornato nella mia fattoria, li ho sorpresi, erano in tre. Stavano violentando mia figlia. Ha solo sedici anni. Avevo il fucile da caccia con me, ho sparato. Tu cosa avresti fatto?». Non rispondo. «Uno è riuscito a scappare, gli altri due sono dietro. Sto andando in città a portare i cadaveri e a consegnarmi allo sceriffo. Non sono una cattiva persona, io». Sì, non è la mia giornata fortunata. Ora ha cessato di piovere. Gli sto per dire semplicemente «fai quello che devi fare» quando un'auto ci affianca. Da lì qualcuno spara, s’infrange il finestrino di sinistra, «abbassati, è il terzo delinquente, quello che era riuscito a scappare» mi urla il tatuato. Accelera, ma l'auto è più veloce, ci taglia la strada, il tipo però perde il controllo, il camion si ribalta. Ci ritroviamo tutti fuori, per terra: io, il tatuato che ha fatto in tempo a prendere il fucile, il cadavere, e l'altro moribondo, che è quello che provava a chiedere «aiuto». Dall'auto invece esce un ragazzo piccolo e dal naso a becco d'aquila. «Brutta merda, hai ucciso i miei fratelli» grida. Avanza, con il braccio teso e la pistola in mano. Mi vede: «E questo chi è? Questa merda ti ha aiutato?». No, non è la mia giornata fortunata. Sto per gridare che non c'entro nulla, ma il tatuato, che aveva nascosto il fucile sotto il corpo, spara e sorprende il ragazzo, che però risponde al fuoco quasi allo stesso istante. Il tipo viene colpito vicino al cuore e si sgonfia, la testa del ragazzo esplode come un cocomero. La pistola vola in aria e finisce a pochi centimetri dal moribondo che ha la forza di afferrarla e puntarla verso di me. L'avevo capito che non era la mia giornata fortunata. Questa volta è finita. Sento il rumore dello sparo, ma è il fucile del tatuato che con le ultime forze, prima di crollare, ha ucciso il moribondo. Questa volta, sì, è davvero finita. Mi alzo, mi guardo intorno. Recupero il fucile, perché non vorrei che a qualcuno venisse in mente di resuscitare, visto che non è il mio giorno fortunato. Sento il rumore di una macchina, mi volto, è una donna sceriffo dai fianchi molto larghi e la pistola in mano che mi intima di buttare il fucile. Obbedisco. Mi guardo intorno: ci sono quattro cadaveri e io fino a pochi secondi fa avevo un fucile in mano. Servirà molto tempo per dare spiegazioni e da queste parti non amano le lunghe chiacchierate. Ricomincia a piovere. 

sabato 21 marzo 2015

i corti che escono su move magazine 25/ Al centro commerciale

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Al centro commerciale
Il vecchio mondo, quello che fino a sei mesi fa, prima del grande crollo, era la normalità, ora a Franco sembra un'ombra lontana. Se non ci fossero gli scaffali dell'ipermercato per metà ancora ricoperti di prodotti, se non ci fossero i marchi che avevano scandito la sua vita, ora sarebbe convinto che era stato tutto un sogno. La luce del sole entra dai finestroni e Franco passeggia nei corridoi di quello che un tempo era il punto di incontro di famiglie, ragazzi, anziani che non sapevano come trascorrere la giornata. E allora andavano al centro commerciale a cercare felicità sottovuoto. Vedere ancora la merce sugli scaffali lo rassicura, soprattutto gli alimentari in scatola che hanno date di scadenza molto lontane. Essersi rifugiato dentro il centro commerciale è stata la sua salvezza: fuori, lontano, bande di disperati si fronteggiano per accaparrarsi il cibo o semplicemente per sfogare la rabbia per tutto ciò che hanno perduto. Franco si è nascosto nel centro commerciale, ha chiuso le porte, pazientemente ha portato fuori tutti i prodotti deperibili che avrebbero reso l'aria irrespirabile. Esce ogni tanto, timoroso che qualcuno scopra il suo regno dove il vecchio mondo ha lasciato ancora un patrimonio di viveri che, per una sola persona, potrebbe durare diversi anni. Nel reparto di elettronica ha trovato anche un lettore dvd che funziona con le pile, così ogni tanto può guardare qualche vecchio film, alternandolo ai romanzi che preleva dalla libreria nel lato nord del centro commerciale.
Successe tutto all'improvviso, racconta Franco a un piccolo registratore a batterie, uno degli ultimi ancora in vendita perché era tra gli oggetti che stavano scomparendo. Vuole lasciare una testimonianza, ma soprattutto vincere la solitudine. La crisi, inizia scandire Franco, stava avanzando, perfida, in tutto il mondo, proprio mentre ci sentivamo invincibili, perché le macchine, i mezzi di comunicazione, internet, la possibilità di dialogare in tempo reale con chiunque in ogni parte del pianeta, ci faceva credere di vivere in un mondo magico. Ma, senza che ne capissimo i motivi, l'economia artificiale che avevamo costruito, fatta di convenzioni e numeri virtuali nei database, implose. La rabbia delle persone si sfogò contro politici e banche, ma questo accelerò la crisi, perché tracimò l'incertezza, e il cosmo che avevano costruito non poteva permettersi l'incertezza, era una ramificata convenzione, una sconfinata finzione globale che poteva reggere solo se tutti stavano al gioco. Un giorno in Europa e negli Stati Uniti ci furono assalti agli istituti di credito, i sistemi che regolavano i trasferimenti di valuta furono compromessi. Si sfaldò la fiducia nella moneta: banconote e carte di credito non rappresentarono più nulla. Si tornò al baratto, il denaro o i numeri che comparivano negli estratti conto persero significato. Non si potevano più pagare gli stipendi, i servizi pubblici si fermarono, polizia ed esercito si frantumarono, nessuno governava più le nazioni occidentali. Ma poiché era tutto collegato, poiché ogni economia si basava sull'altra, il terremoto colpì tutto il pianeta, che da sei mesi, ora, vive una diversificata anarchia, una diffusione vorticosa di povertà, perché nessuno produce più beni e servizi, e di violenza: è saltato ogni ordine. Non so cosa stia succedendo nel resto della mia nazione - prende fiato Franco prima di proseguire - non esistono più mezzi di comunicazione, non viene prodotta energia e dunque non ci sono più tv, radio e internet. So solo che i più violenti hanno formato delle bande che vanno alla caccia dei più deboli, li schiavizzano, violentano le donne. Io sono fortunato, perché nessuno ha avuto la mia idea: rifugiarsi in un centro commerciale. Qui potrò resistere alcuni anni, anche se non capisco il senso di una vita come questa. Franco spegne il registratore, si guarda intorno e decide di cambiarsi vestiti. Entra in un negozio di abiti firmati per ragazzi e si prende un nuovo modello di jeans a vita bassa e una t-shirt. Ha trentacinque anni e quando il vecchio mondo è crollato era un insegnante di inglese, senza una moglie, senza figli e senza una vita che lo soddisfacesse. Non è cambiato molto da allora, visto che il tempo libero lo trascorreva al centro commerciale. È un tipo pacifico, se una delle bande dovesse trovarlo non avrebbe scampo. Percepisce un rumore, qualcuno sta entrando. Il rifugio è stato scoperto. Ansima, sente dei passi. Aveva nascosto un’ascia in un trolley. La prende, non può restare nell’ombra per sempre. Meglio farla finita. Esce dal negozio, si ritrova nella galleria centrale, tenendo l'ascia con due mani. Sente gli intrusi camminare dietro l'angolo, corre verso di loro, urla, e solleva l'ascia pronto a colpire. Poi li vede: sono tre bambini denutriti, arrivati lì chissà come. Si ferma. Appena in tempo.

lunedì 2 marzo 2015

i corti che escono su move magazine 24/ cosa è giusto

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Cosa è giusto


Irina segue con lo sguardo Francesco che corre sul campo da calcio, urla come qualsiasi altro bambino, anche se a undici anni, lo sa bene anche lei, bambino più non è. L'allenatore le ha spiegato che ha talento, è forte fisicamente, che per ora si diverte, ma chi lo sa, promette bene. A Irina non interessa, è già importante vederlo correre, urlare come qualsiasi altro bambino. Undici anni fa, quando decise di parlare a un poliziotto italiano dal viso tenace, non era così sicura che ce l'avrebbe fatta, che il bambino sarebbe nato, che l'organizzazione non l'avrebbe trovata e uccisa. Oggi a vedere la partita è venuta anche Sofia, la figlia di quel poliziotto che l'aiutò a uscire dalla prigionia del racket della prostituzione. Una delle ragioni per cui lui si batté tanto per salvare Irina, incinta e disperata, è che anche sua moglie era al secondo mese. Oggi Sofia e Francesco sono amici inseparabili e, anche se non l'ammette neppure con se stessa, Irina è perfino un po' gelosa di lei. Urla, tutti in tribuna si alzano in piedi e applaudono, il padre del portiere della squadra di Francesco, si volta e quasi la strattona: «Signora, ha visto che razza di gol ha fatto suo figlio? Da trenta metri, a undici anni...». Irina sorride, timida, anche dopo undici anni non si è abituata a complimenti e gentilezza, per troppo tempo la sua vita è stata sofferenza, umiliazione e botte. Poi un giorno è come se a Irina dessero un calcio allo stomaco simile a quelli che gli sferrava il capo dell'organizzazione. Mentre sta stirando le camicie dell'avvocato per il quale lavora, Francesco è apparso dal nulla, cupo come non era mai stato, l'ha fissata, e stringendo in pugni, le ha chiesto: «È vero? Perché non me l'avevi mai detto?». «Di cosa stai parlando?». Il ragazzino le ha allungato un foglio stampato dal computer, una mail inviata da un indirizzo che Irina non conosce. C'è scritto: «È giusto che tu lo sappia, tua madre prima che tu nascessi era una prostituta, anche se per garantire una vita migliore a te che stavi per nascere ha avuto il coraggio di denunciare i suoi sfruttatori. Dovresti essere fiero di lei». Non c'è nessuna firma. Irina trema, non trova la forza di reagire, va in camera a piangere anche se capisce che questa è la cosa sbagliata. Francesco non riesce ad essere fiero di lei, anche se sa che sarebbe la cosa giusta. «Perché mi hai sempre detto che mio padre era morto prima che tu venissi in Italia?» urla. Sono le ultime parole che pronuncia per una settimana. Non va più a giocare a pallone, a scuola gli insegnanti non lo riconoscono.Irina non comprende chi possa essere stato tanto crudele da inviare quella email a Francesco. Forse qualcuno dell'organizzazione ha voluto vendicarsi? O magari Tobia, il poliziotto, per un incomprensibile motivo, magari pensando di fare il meglio per il bambino? In realtà solo lui, in città conosce la verità. Irina lo chiama al telefono, gli dice che è stato un verme, che non ne aveva diritto. «Ma di cosa stai parlando Irina? Non capisco, davvero. Cerca di spiegarti». Irina interrompe la telefonata, si vergogna di avere dubitato di Tobia, l'uomo a cui deve la vita e quella di Francesco. Una settimana dopo Sofia va a trovare Francesco che quanto meno ora comunica a monosillabi con Irina. Il giorno prima le ha detto: «Comunque io ti vorrò sempre bene, tantissimo». E poi è arrossito e si è chiuso in camera. Irina pensa: sta soffrendo molto, troppo, non perdonerò mai chi gli ha causato tanto dolore.Sul tavolo della cucina c'è lo zaino di Sofia, Irina lo sposta, cade un libro, un romanzo, e si apre su una pagina piegata. C'è una frase evidenziata in azzurro e sottolineata anche a penna, come se Sofia avesse riflettuto a lungo su quella frase. Irina la legge: "Nella vita per essere felici è meglio conoscere tutta la verità? Ed è vera felicità quella che è costruita su alcune menzogne, su alcune notizie che qualcuno ci ha celato?". Capisce: non è stato Tobia a inviare quella email, ma Sofia. Non riesce ad odiarla.Il giorno dopo Francesco torna ad allenarsi, Irina si sente meglio. Suonano alla porta, lei apre distratta ed arriva un calcio allo stomaco, questa volta è vero. Distingue la testa pelata e il tatuaggio: un teschio. È lui, l'ha trovata. Vede il coltello, sa che sta per finire tutto. Chi penseIrà a Francesco? Poi sente il tonfo e un urlo, quasi contemporanei, vede Tobia che è entrato dalla porta lasciata socchiusa e ha colpito, appena in tempo, il tatuato. Le ha salvato di nuovo la vita. Mentre i colleghi portano via il tatuato, Tobia dice a Irina: «Ero venuto a chiederti spiegazioni, non avevo capito la telefonata che mi avevi fatto la settimana scorsa, ero preoccupato». Irina sorride, lo abbraccia, non era niente, gli risponde. Riflette: se Sofia non avesse inviato l'email a Francesco, lei non avrebbe fatto quella telefonata stupida a Tobia, Tobia non sarebbe venuto a chiederle spiegazioni e il tatuato l'avrebbe uccisa. Sofia, in fondo, le ha salvato la vita.

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