mercoledì 30 luglio 2014

i corti che escono su move 14/ il reato di solutidine

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Il reato di solitudine

L'allarme è scattato attorno alle 20. Con la squadra sono corso nella zona est della città, nei cunicoli. Lo abbiamo trovato in un angolo, appoggiato al muro, che fissava il vuoto. Sorrideva e quando ci ha visto si è spaventato. Gli abbiamo intimato "fermo" e abbiamo acceso le telecamere. La sua immagine è stata mandata in rete, vista, studiata, commentata, derisa, bollata da poche parole di comprensione tipo «poverino, forse era impazzito» a cui hanno risposto i più «vergogna, non giustificatelo, sono persone come queste che potrebbero mandare in rovina il nostro sistema».
Io l'ho avvicinato e ho pronunciato la solita formula, che per fortuna ormai siamo costretti a usare sempre meno: «Cittadino, la prendo in custodia con l'accusa di isolamento. Lei ha infranto il principio cardine della nostra costituzione che combatte e vieta la solitudine, perché chi si isola, chi non resta connesso alla società, ha qualcosa da nascondere. Si dichiara colpevole?». Lui mi ha guardato negli occhi e mi ha sorriso: «Certo, ho sbagliato. Però sono stati i 36 minuti più belli della mia vita».
Sì, trentasei minuti avevamo impiegato a rintracciarlo, dopo che aveva estratto il trasmettitore sottocutaneo dalla pelle della mano, aveva strappato le piccole antenne che consentono la costante connessione con le microcamere che ognuno di noi porta sul corpo. Aveva anche gettato in un fiume la tavoletta, quella che ci consente di dialogare e vedere gli altri costantemente. Ormai faccio questo lavoro da 10 anni. La legge che ha vietato la solitudine è di trent'anni fa. All'inizio coloro che la violavano erano numerosi, ma con il tempo sono diminuiti, la popolazione si è resa conto che rinunciare alla privacy e alla solitudine, essere connessi senza soluzione di continuità, è un formidabile strumento per assicurare la pace e la concordia, contrastare il crimine e la violenza. «La nostra sarà una società più giusta e felice - spiegò trent'anni fa il Presidente - perché chi non ha nulla da nascondere non ha bisogno di nascondersi. Perché se siamo tutti fratelli, allora è giusto essere sempre connessi ai nostri fratelli. Rinunciare alla solitudine significa essere felici».
Sono tornato a casa, ho fatto la doccia e mi sono seduto a tavola con mia moglie e mio figlio. Sugli schermi alle pareti vedevamo famiglie di amici che stavano cenando come noi. E loro vedevano noi. Qualcuno, nelle sale operative decentrate ci stava guardando, di sicuro la rete dei computer centrale analizzava e memorizzava tutti i nostri movimenti. «Ti ho visto oggi papà - mi ha detto mio figlio - hai preso quel maledetto delinquente colpevole di solitudine. Ma perché ci sono persone così?». Io gli ho sorriso e in pochi secondi sono arrivati dalla rete almeno 500mila "i like" alla frase di mio figlio.
E un giorno ho incontrato Eva. Era anche lei nelle squadre anti solitudine, ma agiva in un'altra zona. Ci siamo incrociati in caserma e non abbiamo detto nulla, è stato solo uno scambio di sguardi, impercettibile anche alle telecamere che scrutano anomali sentimenti nella popolazione. A pranzo ci siamo seduti vicini, nella mensa, fingendo che fosse tutto casuale. «Oggi sarà una bella giornata» le ho detto. «Forse - mi ha sorriso - ma per me è già bella». Non ha aggiunto altro, ma per me significava «sono contenta di averti conosciuto, sono innamorata di te». Nel corso delle giornate successive abbiamo continuato ad incontrarci, sempre fingendo che fosse per caso, sempre fingendo di scambiarci parole di circostanza. Così potevamo eludere i controlli, evitare che mia moglie o suo marito divenissero sospettosi, ma anche che la sala operativa centrale intervenisse di fronte al pericolo di sentimenti anomali e potenzialmente nocivi.
Una sera siamo fuggiti: come nessuno conoscevamo le falle del sistema e siamo riusciti a disconnetterci dalla rete con un discreto vantaggio sulle squadre che sarebbero venute a cercarci. Stavamo correndo su un prato, tenendoci per mano, quando lei si è fermata e mi ha baciato. Subito dopo mi ha puntato al volto un immobilizzatore e ha urlato:«Ti dichiaro in arresto». Era una trappola, mi avevano messo alla prova e l'avevo fallita. Quello che non sapevano che io avevo fin dall'inizio sospettato di Eva, avevo anch'io un immobilizzatore. Sono stato più rapido di lei, l'ho colpita, l'ho lasciata sul prato, si sarebbe risvegliata solo dopo 24 ore. Poi ho corso, sfruttando un corridoio di assenza della rete dei controlli, fino ai cunicoli. Solo. Mi sono steso e con le mani sotto la testa e ho fissato il soffitto. Ho iniziato a pensare, ero solo. Finalmente.
Ecco cos'è la solitudine. Forse presto mi troveranno, verranno a prendermi, ma sto trascorrendo i momenti migliori della mia vita.

giovedì 24 luglio 2014

i corti che escono su move 13/ non ti amo

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Non ti amo Mi alzo, lascio dieci euro sul tavolo, mi allontano, sento Sandra «ma dove vai, almeno salutami». Cammino in una città che non conosco, è stato un errore venire fin qui per convincerla a tornare. «Non ti amo, forse non ti ho mai amato, come faccio a tornare?» mi ha detto. Ho insistito, a lungo, ho costruito ragionamenti pericolanti. Ora salgo sul treno, appoggio la testa al finestrino gelido, guardo fuori. Poi un boato, volo per una decina di metri, sento un dolore acuto alla spalla, vengo sbattuto a destra e a sinistra del vagone. Urla. Silenzio. E di nuovo urla. Fuori trovo altri zombie, più in là un vagone sta andando a fuoco, io non sento più il braccio, forse è rotto. Urla, «aiuto, aiuto». Corro, entro tra i rottami del vagone che brucia, forse cerco la morte perché sono già morto. Vedo due bambini incastrati nei sedili, li afferro, tiro, li porto via, li lascio sul prato. Quattro ore dopo sono su un letto di un ospedale, sento il profumo dello shampoo alla mela di una giornalista che quasi mi colpisce con un microfono. Mi ha spiegato che una telecamera da lontano mi ha filmato mentre entravo nel vagone in fiamme. Il video è già sul web, lo hanno visto in tutto il mondo. «Come è andata?» Ora mi chiede. Io non posso dirle che cercavo solo di morire, e allora mento, spiego che lo avrebbe fatto chiunque. Arriva Sandra, stringe la borsa come fa quando è nervosa, mi abbraccia, non si accorge della telecamera. Prima un medico mi ha chiesto se volevo avvertire qualcuno. Ho solo mio padre, ma è stato appena operato al cuore. Così ho telefonato a Sandra. La giornalista però non perde l'occasione: «Lei è la fidanzata?». Sandra esita, ma capisce che non può spiegare in diretta che mi ha lasciato tre mesi fa, che se ne è andata all'alba, senza dirmi nulla. Così risponde: «Sì, sono la fidanzata». Quando restiamo soli si giustifica: «Ho mentito, ma cos'altro potevo fare?». Quella bugia in diretta però resta attaccata alla pelle, come la sabbia dopo una giornata in spiaggia. Ci intervistano, finiamo in programmi in cui non vorremmo andare ma a cui dice sì mio padre quando risponde al telefono. Lui non sa che con Sandra tutto è finito. Ma la verità potrebbe agitarlo e prosegue la farsa. «Ora basta però» mi dice Sandra, dopo l'ennesima intervista. Però un giorno chiama a casa il produttore de «La vita è un sogno». Mio padre, che pure un tempo era un serioso intellettuale di sinistra, da quando trascorre le giornate sul letto adora quel programma. Dice sì per noi, poi ci implora di andare. Accettiamo, «ma è l'ultima volta» lo rimprovera Sandra. Nuova recita in diretta, la giornalista si commuove quando rivede il video del salvataggio dei bambini. «Sandra, sa che è innamorata di un eroe?» chiede, asciugandosi una lacrima. «Certo, l'ho sempre saputo». Applausi. «Qual è il vostro sogno? Il viaggio che avete sempre desiderato?». Restiamo in silenzio. Esco dall'imbarazzo e invento: «Bali». Non so neanche dove sia. Sandra approva, «sì Bali». «Sorpresa! Il nostro sponsor vi regala un magnifico viaggio ovunque vogliate. Volete Bali? Sceglieremo il resort più bello». Ora stiamo passeggiando sulla spiaggia di Semyniak. Ho tentato di spiegare alla produzione che non volevamo regali, ma loro hanno insistito e si stavano insospettendo. Sarebbe venuto fuori che Sandra e io non stiamo più insieme e avremmo rischiato di ritrovarci inseguiti da ancora più giornalisti di prima. D'accordo con Sandra, abbiamo deciso di fare l'ultima recita, ora siamo mano nella mano, la telecamera dietro di noi, naturalmente. Beviamo due Singapore Sling, ci gira la testa. Finalmente nella suite del resort restiamo soli. «Non dormire sul divano stasera» mi dice lei, che è più malinconica del solito. Facciamo l'amore, dura poco e non è molto bello, però dormiamo abbracciati. «Ormai ho 32 anni ed è come se il destino mi dicesse che devo restare con te. Sposiamoci, anche se non ti amo» mi sussurra. Sono trascorsi trent'anni e siamo ancora insieme. Siamo alla festa di laurea della nostra unica figlia e tutti ci guardano con ammirazione, per la solidità del nostro matrimonio. Sandra non mi ha mai amato, non c'è stata più passione tra noi. Negli anni l'ho tradita, ma non mi sono mai innamorato di altre donne. Forse anche lei lo ha fatto, ma con discrezione. La recita, iniziata per caso, non è mai finita, eppure siamo sereni, perché ci siamo voluti bene. Forse se non ci fossimo più incontrati, da quel giorno in cui sono salito sul treno, saremmo stati più infelici. Sandra mi abbraccia, capisce i miei pensieri. «Non è stata una storia d'amore» le dico. «No, ma va bene così». Mi alzo, lascio dieci euro sul tavolo, mi allontano, sento Sandra «ma dove vai, almeno salutami». Cammino in una città che non conosco, è stato un errore venire fin qui per convincerla a tornare. «Non ti amo, forse non ti ho mai amato, come faccio a tornare?» mi ha detto. Ho insistito, a lungo, ho costruito ragionamenti pericolanti. Ora salgo sul treno, appoggio la testa al finestrino gelido, guardo fuori. Poi un boato, volo per una decina di metri, sento un dolore acuto alla spalla, vengo sbattuto a destra e a sinistra del vagone. Urla. Silenzio. E di nuovo urla. Fuori trovo altri zombie, più in là un vagone sta andando a fuoco, io non sento più il braccio, forse è rotto. Urla, «aiuto, aiuto». Corro, entro tra i rottami del vagone che brucia, forse cerco la morte perché sono già morto. Vedo due bambini incastrati nei sedili, li afferro, tiro, li porto via, li lascio sul prato. Quattro ore dopo sono su un letto di un ospedale, sento il profumo dello shampoo alla mela di una giornalista che quasi mi colpisce con un microfono. Mi ha spiegato che una telecamera da lontano mi ha filmato mentre entravo nel vagone in fiamme. Il video è già sul web, lo hanno visto in tutto il mondo. «Come è andata?» Ora mi chiede. Io non posso dirle che cercavo solo di morire, e allora mento, spiego che lo avrebbe fatto chiunque. Arriva Sandra, stringe la borsa come fa quando è nervosa, mi abbraccia, non si accorge della telecamera. Prima un medico mi ha chiesto se volevo avvertire qualcuno. Ho solo mio padre, ma è stato appena operato al cuore. Così ho telefonato a Sandra. La giornalista però non perde l'occasione: «Lei è la fidanzata?». Sandra esita, ma capisce che non può spiegare in diretta che mi ha lasciato tre mesi fa, che se ne è andata all'alba, senza dirmi nulla. Così risponde: «Sì, sono la fidanzata». Quando restiamo soli si giustifica: «Ho mentito, ma cos'altro potevo fare?». Quella bugia in diretta però resta attaccata alla pelle, come la sabbia dopo una giornata in spiaggia. Ci intervistano, finiamo in programmi in cui non vorremmo andare ma a cui dice sì mio padre quando risponde al telefono. Lui non sa che con Sandra tutto è finito. Ma la verità potrebbe agitarlo e prosegue la farsa. «Ora basta però» mi dice Sandra, dopo l'ennesima intervista. Però un giorno chiama a casa il produttore de «La vita è un sogno». Mio padre, che pure un tempo era un serioso intellettuale di sinistra, da quando trascorre le giornate sul letto adora quel programma. Dice sì per noi, poi ci implora di andare. Accettiamo, «ma è l'ultima volta» lo rimprovera Sandra. Nuova recita in diretta, la giornalista si commuove quando rivede il video del salvataggio dei bambini. «Sandra, sa che è innamorata di un eroe?» chiede, asciugandosi una lacrima. «Certo, l'ho sempre saputo». Applausi. «Qual è il vostro sogno? Il viaggio che avete sempre desiderato?». Restiamo in silenzio. Esco dall'imbarazzo e invento: «Bali». Non so neanche dove sia. Sandra approva, «sì Bali». «Sorpresa! Il nostro sponsor vi regala un magnifico viaggio ovunque vogliate. Volete Bali? Sceglieremo il resort più bello». Ora stiamo passeggiando sulla spiaggia di Semyniak. Ho tentato di spiegare alla produzione che non volevamo regali, ma loro hanno insistito e si stavano insospettendo. Sarebbe venuto fuori che Sandra e io non stiamo più insieme e avremmo rischiato di ritrovarci inseguiti da ancora più giornalisti di prima. D'accordo con Sandra, abbiamo deciso di fare l'ultima recita, ora siamo mano nella mano, la telecamera dietro di noi, naturalmente. Beviamo due Singapore Sling, ci gira la testa. Finalmente nella suite del resort restiamo soli. «Non dormire sul divano stasera» mi dice lei, che è più malinconica del solito. Facciamo l'amore, dura poco e non è molto bello, però dormiamo abbracciati. «Ormai ho 32 anni ed è come se il destino mi dicesse che devo restare con te. Sposiamoci, anche se non ti amo» mi sussurra. Sono trascorsi trent'anni e siamo ancora insieme. Siamo alla festa di laurea della nostra unica figlia e tutti ci guardano con ammirazione, per la solidità del nostro matrimonio. Sandra non mi ha mai amato, non c'è stata più passione tra noi. Negli anni l'ho tradita, ma non mi sono mai innamorato di altre donne. Forse anche lei lo ha fatto, ma con discrezione. La recita, iniziata per caso, non è mai finita, eppure siamo sereni, perché ci siamo voluti bene. Forse se non ci fossimo più incontrati, da quel giorno in cui sono salito sul treno, saremmo stati più infelici. Sandra mi abbraccia, capisce i miei pensieri. «Non è stata una storia d'amore» le dico. «No, ma va bene così»

venerdì 4 luglio 2014

i corti che escono su move 12/ 1.232.009 volte

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

1.232.009 volte
Alberto esce di casa in fretta, ma quando sente la porta chiudersi alle sue spalle si ricorda che ha lasciato le chiavi dentro. Merda. «Francesca mi prenderà in giro per una settimana». Francesca abita sullo stesso pianerottolo. Ha 35 anni, come lui. Divorziata, come lui. Da quando si è trasferita nel palazzo è nata una goliardica complicità. All'inizio Alberto sperava di portarla a letto, poi gradatamente tutto si è trasformato in un'amicizia quasi da compagni di scuola. La chiama: «Francesca, ho dimenticato le chiavi dentro casa. Tu hai una copia delle mie, no?». Francesca al cellulare ride. «Tranquillo, stasera ti apro io, le ho nel cassetto in cucina». «Basta che non ti fermi in giro a scopare, perché io alle 21 devo rientrare» scherza lui, divertito dal linguaggio volgare che ormai li accomuna. «Beh, puoi sempre chiedere a Tommy di aprirti». Tommy è il bastardino di Francesca che trascorre le giornate da solo nell'appartamento. Alle 21.15, dopo una giornata faticosa in ufficio, Alberto torna a casa e suona alla porta di Francesca. Non risponde. Prende il cellulare e la chiama. È staccato. Aspetta, riprova. Ancora staccato. Le manda un sms scherzoso: «Con chi cazzo stai scopando?». Trascorre il tempo. Alberto è rassegnato. Poi si ricorda che dalla finestra del pianerottolo può raggiungere il balcone di Francesca. Lo ha già fatto, quando anche lei dimenticò le chiavi. Si arrampica, salta, si ritrova nel balcone, solleva la serranda ed entra. Vede Tommy a terra, ricoperto di sangue. Vede Francesca sul letto, corre ad aiutarla, sposta un coltello che è vicino a lei, il collo è squarciato. È morta. Bussano alla porta, «carabinieri» urlano. Lo trovano vicino al letto, il corpo di Francesca, il coltello che ha toccato, il sangue. All'alba esce dalla caserma in manette, decine di persone gridano «assassino». Il capitano dei carabinieri e il magistrato non hanno creduto a una sola parola del suo racconto. Hanno raccolto il cellulare di Francesca ritrovato a terra. Lo hanno acceso e hanno letto l'ultimo sms di Alberto: «Con chi cazzo stai scopando?». Una vicina lo ha visto entrare dal balcone. Alberto si ritrova in cella, in isolamento, e pensa che tutto sia finito. Eppure la sua vita stava andando bene. E poi ecco il buio improvviso. Se solo non si fosse dimenticato le chiavi. Non mangia più. Una notte pensa a Tommy, al cane che Francesca aveva trovato per strada. Il giorno dopo chiede di cambiare avvocato, nomina Loretta, una vecchia compagna di università. Le spiega: «Stanotte mi è tornato in mente: Francesca si divertiva a riprendere ciò che faceva in casa Tommy, il cane, quando lei non c'era. Aveva installato un software nel pc e una webcam registrava tutto. Forse è stato ripreso l'assassino». Dopo una settimana Alberto è libero. Sono state trovate le immagini, si vede Francesca che rientra a casa, ma dietro qualcuno spinge la porta, entra un tipo grasso e alto, l'opposto di Alberto. La scaraventa a terra, prova a violentarla, lei resiste, Tommy abbaia, lui la sgozza. E poi uccide il cane. Il video arriva anche ai giornalisti. Così non ci saranno più dubbi: Alberto è innocente. Per alcuni giorni nessuno ne dubita, anzi in molti gli stringono la mano. Però sente ancora una patina di diffidenza intorno a sé. Su Facebook, su Twitter, sui blog cominciano a circolare strane teorie: che il padre di Alberto era massone, che qualcuno lo ha voluto proteggere, che il video è una montatura, basta guardare le ombre e si capisce che è un falso. A centinaia, a migliaia, condividono questa teoria, perfino un parlamentare, c'è un'interrogazione al Senato. Alberto sente che la patina di diffidenza sta aumentando, in ufficio lo guardano in modo strano, le ragazze non gli sorridono più. È tutto così evidentemente falso, un video dimostra che non è l'assassino, ma Alberto si sente impotente di fronte all'onda, su Twitter compare anche l'hashtag #ilfigliodelmassonedevepagare. Alberto parte, va a New York, conosce una ragazza in un bar, la porta in albergo. Fanno l'amore, ma al mattino, quando si risveglia, non la trova più. Vede che ha usato il suo iPad, nella schermata c'è Google, lei per curiosità ha cercato il nome del ragazzo con cui aveva trascorso la notte, sono uscite decine di notizie su un omicidio ed è fuggita. Alberto torna in Italia, ma quella patina di diffidenza ora è soffocante. Prende una corda e s'impicca. Il giorno dopo un giornalista coscienzioso scrive un bell'articolo sull'ingiustizia subita da Alberto. Un blogger anonimo, invece, posta una ricostruzione velenosa, con la teoria del video contraffatto, delle trame oscure: «Vedete, si è ucciso, dunque era colpevole». L'articolo del giornalista coscienzioso viene condiviso 345 volte su Facebook e Twitter. Quello del blogger anonimo 1.232.009

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