lunedì 24 agosto 2015

i corti che escono su move magazine 34/ tegel

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Tegel A Berlino il buio è macchiato dalla luce livida dei lampioni e da una lieve striscia bianca di neve che cade. Un uomo, indifferente al freddo, percorre un marciapiede in salita, entra in un tunnel da cui esce dopo un minuto e infine svolta a destra, su una strada laterale, mentre vicino a lui scorre continuo un flusso di Golf e Mercedes quasi sempre scure. All'entrata di un palazzo di tre piani, dove lampeggia un neon rosa a forma di cuore, sorride a una donna bionda e con il seno rifatto in vista. Potrebbe avere tra i 35 e i 60 anni, è alla reception. «Settanta euro?» chiede lui in inglese. «Certo» risponde lei con un sorriso burocratico. «Non le spiego come funziona - aggiunge - perché mi sembra di averla già vista qui altre volte». «Naturalmente» dice. Riceve una chiave con scritto 237, dopo avere pagato con una carta di credito. Mentre si allontana verso gli spogliatoi, la signora della reception verifica sul computer che la sua memoria non sbaglia: da trentasei mesi con quella carta di credito è stato pagato l'accesso al club. Una volta ogni mese, non una di più, non una di meno. «Italiano...» sorride, ma quasi con tenerezza. Intanto l'uomo si è spogliato e ora mostra un corpo da trentacinquenne a cui servirebbe un abbonamento a una palestra, ma comunque non brutto. Richiude l'armadietto dove ha lasciato i vestiti, si arrotola un asciugamano ai fianchi come fosse una gonna, non ascolta le risate di tre uomini, probabilmente francesi, che parlano di una ragazza ucraina. Dentro, nella zona delle piscine distribuite attorno a un bar dove siedono molti cinquantenni, alcuni sessantenni, e gruppetti di ventenni, tutti nudi coperti solo dall'asciugamano, lui squadra le ragazze che invece non hanno nulla, solo un paio indossano dei perizoma, la maggioranza neppure quello. Alcune sono annoiate, altre sorridenti, altre ancora lanciano sguardi verso gli uomini come se cercassero il segnale per il telefonino. L'italiano però non guarda nessuno, va dritto verso una vetrata che porta a una sala dove c'è scritto restaurant. C'è un buffet, si serve da mangiare - patate lesse e del pane - e si siede all'unico tavolino libero. Negli altri ci sono almeno ottanta clienti con il solito asciugamano e una decina di ragazze, ma in quella sala c'è una sorta di sospensione della contrattazione, una tregua, si pensa solo a mangiare. Poco dopo una ragazza asiatica nuda si siede vicino a lui e taglia con puntiglio una cotoletta. Non parlano, nessuno parla in quella zona. Quando finisce di mangiare, l'uomo ripone il vassoio su un carrello in cui c'è scritto "thank you" e si avvia al bar. Si fa servire un gin tonic da un barista grosso e pelato. Poi cammina da un punto all'altro della vasta area grande come un campo da calcio. Esplora con lo sguardo le piscine, apre la porta di una sauna per vedere chi c'è dentro, entra in una sala scura. Qui su un grande schermo ci sono le immagini di un film porno, sui divanetti c'è una bionda che sta facendo un pompino a un ciccione con i capelli rossi che ansima come se stesse russando. Poi nell'ultima fila, stesa come se stesse riposando ma in realtà in una posa molto eccitante per i potenziali clienti, vede una ragazza con i capelli lunghi e corvini, le labbra carnose. Lei accenna un lieve sorriso, lui è come se avesse completato una ricerca. «Cento euro come al solito?». «Cento euro, vuoi la stanza privata come sempre?». «Certo». Il sesso tra loro dura poco, neppure quindici minuti, poi lui si stende a pancia in su, fissando le false stelle del soffitto. «Per favore, resta un altro po'» le dice. «Non posso restare molto, sto lavorando, lo sai». «Solo dieci minuti». «Solo dieci minuti». Lui le stringe la mano, lei lo lascia fare, ma non ricambia. «Forse è venuto il momento che la smetti con questo lavoro, che torni in Italia. Se vuoi ci trasferiamo in un'altra città, in un altro continente. O altrimenti vieni da me, a Birmingham, il lavoro mi sta andando bene. Qualsiasi soluzione...ma io così non ce la faccio più». «Tutte le volte, tutte le volte mi ripeti questa storia...dai, Piero...». «Io ti amo ancora, lo sai». «E io no, non ti ho mai amato». «Facciamo tornare tutto come prima». «Come prima? Ma Piero noi non siamo mai stati insieme... È da quindici anni che mi dici di essere innamorato: me lo dicevi all'università, me lo hai ripetuto quando lavoravo nell'assicurazione di tuo padre. Perfino ora che qui faccio la prostituta... E forse lo sei davvero, innamorato, non voglio ferirti. Però io non ti amo e non ti amerò mai». Per un attimo, impercettibilmente, lei gli stringe la mano. Poi lui si alza, le accarezza i capelli, le sorride, «allora ci vediamo tra un mese?». «Certo, sei un cliente, non te lo posso impedire». Piero lascia la stanza senza voltarsi e dopo quindici minuti è di nuovo immerso nel freddo di Berlino, nevica più forte. Il mattino dopo, all'aeroporto di Tegel, mentre attende l'imbarco, sul tablet cerca un volo Birmingham-Berlino per il mese successivo.

i corti che escono su move magazine 33/ il bambino sacro


copia e incolla da move magazine


di Mauro Evangelisti


Il bambino sacro

Sapevamo che l'Impero del Nord un giorno ci avrebbe attaccato, ma mai avremmo immaginato con tale crudeltà e ferocia. Iniziarono con gli atti terroristici più disumani: alcuni infiltrati fecero esplodere una decina di asili, uccidendo oltre tremila bambini. Il giorno stesso il leader dell'Impero del Nord apparve in tv e affermò: «Il grande e ultimo attacco alla Repubblica del Sud è cominciato, non avremo pietà perché questo ci chiede la storia: li stermineremo». Nei giorni successivi, nelle nostre città, altri infiltrati sparsero sangue e terrore, con attacchi rapidi e spietati. Riuscimmo a fermare, uccidendoli, solo due di loro. Spararono nei centri commerciali, misero bombe sui treni, ammazzarono con dei gas velenosi centinaia di persone nella metropolitana. Eppure, il peggio doveva ancora arrivare. Chiedemmo aiuto alle altre nazioni, spiegammo che presto l'Impero del Nord avrebbe attaccato anche loro, ma fu inutile: tutte, spaventate, rivendicarono la loro neutralità. Quando lo Stato delle Colline si limitò ad accettare un incontro con il nostro presidente, l'Impero del Nord bruciò il loro aeroporto. L'incontro fu cancellato e ci trovammo ancora più soli. Fu allora che iniziarono i bombardamenti: la nostra contraerea era impreparata, quasi ridicola di fronte a migliaia di aerei nemici che ogni giorno sorvolavano ogni angolo del paese. Gli obiettivi inizialmente furono solo militari, poi quando le nostre postazioni furono distrutte, iniziarono scientificamente a bombardare ospedali, case di riposo, scuole. E poi i monumenti, quasi a rimarcare che il nostro popolo saremmo stato sterminato e quindi anche delle testimonianze della nostra lunga storia non sarebbe rimasta traccia. Con il presidente visitai le scuole disintegrate, vidi i brandelli dei bambini uccisi, sentii le donne urlare, consolai giovani orrendamente mutilati. Stava finendo tutto e lo sapevamo. Era solo questione di tempo. Un mese dopo l'inizio della grande offensiva il presidente ci convocò nel suo bunker sotterraneo dove era stato costretto a trasferirsi per garantire ancora una parvenza di guida alla Repubblica. Eravamo una decina tra ministri e consiglieri. Malgrado la mia giovane età, io rappresentavo i servizi segreti, perché il direttore in carica era stato ucciso in un bombardamento. «Ho tentato di contattare il leader dell’Impero del Nord per chiedergli una tregua» disse il presidente con voce esitante. Tutti reagimmo con sdegno, «è inaccettabile» mi lasciai scappare. Il presidente alzò la mano, per placarci: «Non è neppure il caso di parlarne, visto che il leader ha rifiutato qualsiasi contattato e si è limitato a farmi sapere che nel giro di sei mesi il nostro popolo e la nostra nazione non esisteranno più. Da quello che ci dicono i servizi segreti - aggiunse indicando a me - tra una settimana comincerà l'invasione, centinaia di migliaia di soldati dell’Impero del Nord oltrepasseranno il confine. E per noi non ci sarà scampo». «Abbiamo solo una possibilità» lo interruppi. Tutti mi guardarono stupefatti. «Dobbiamo uccidere il bambino sacro e trasportare nel nostro territorio il suo cadavere». L'Impero del Nord da almeno trecento anni era guidato da una casta di militari che aveva forgiato il popolo secondo alcuni valori che a noi apparivano disgustosi. Nessuno metteva in discussione le scelte della giunta militare. Quando le loro bombe uccisero migliaia di nostri bambini negli asili, i cittadini dell’Impero del Nord scesero in piazza a festeggiare. Non erano forzati dal regime, ormai c'era una adesione totale al sistema. Ma in base ad un'antichissima tradizione che neppure la casta dei militari aveva osato modificare (anzi l'aveva salvaguardata perché ne vedeva l'elemento unificante del popolo) l'Impero del Nord venerava il bambino sacro. Era scelto dai sacerdoti, sulla base di alcuni principi misteriosi, e aveva tra i 2 e gli 8 anni. Al compimento dei nove anni il bambino lasciava il tempio e tornava a una vita normale, mentre il suo posto veniva preso da un altro bambino di due anni. Per il bambino sacro c'era venerazione assoluta; senza il bambino sacro l'Impero del Nord si sarebbe liquefatto, perché sarebbe venuto a mancare quell’elemento unificante. Ogni giorno centinaia di migliaia di cittadini dell'Impero si mettevano in fila per veneralo. La mia missione era semplice: entrare nel tempio, uccidere il bambino e portare il corpo nel nostro territorio. A quel punto, con il cadavere del bambino in nostro possesso, l'Impero del Nord non avrebbe mai più osato attaccarci, sempre che fosse riuscito a sopravvivere a un tale choc.
È stato molto facile, sono un ottimo agente e l'Impero è presuntuoso, non si aspettava un nostro attacco. Il servizio a protezione del bambino sacro, nel tempio, è quasi inesistente, perché nessuno lì penserebbe di attentare alla sua vita. Ho ucciso il sacerdote e ora sono solo, in una stanza con le pareti rosse, davanti al bambino sacro. Ho il coltello in mano, lo devo sgozzare. Lui ha due anni e mi sorride. Dice cose incomprensibili, mi invita a giocare con un bambolotto. Io penso ai cadaveri dei nostri bambini, alla guerra che finirà se affonderò il mio coltello nel suo ventre. Lui mi guarda, ride ancora e batte le mani.

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