venerdì 21 ottobre 2011

il racconto uscito su www.cinquecapitoli.it

di Mauro Evangelisti

LE FOTO DI SARA


Manuel torna ad aprire gli album del profilo su Facebook di Piccola dama. Non lo fa da molto tempo. Anche perché ormai le immagini sono sempre le stesse. Nessun aggiornamento, come se il tempo si fosse fermato per Piccola dama.

Le foto dei palazzi squadrati della periferia scorticata romana, i citofoni allineati con i nomi scritti con il pennarello e una videocamera diffidente, le colonne e i portici sporcati da vernici che raccontano di parolacce, amori eterni, nemici politici e del pallone, le basculanti dei garage che nascondono il patrimonio più amato, le macchine e gli scooteroni. Le foto scattate da Piccola dama. Sono immagini che a Manuel ricordano un periodo della sua vita neanche tanto lontano, ma finito, archiviato. Non aveva compiuto ancora diciotto anni, stava finendo il liceo. C’era un’estate che ricorderà per sempre per quel percorso a piedi di ogni giorno. Gli sembra che fossero unicamente sole, scritte sui muri, musica alta dalle finestre, Tiziano Ferro e Jovanotti forse, manifesti ovunque, spocchiosi, con facce di merda rette da giganteschi nodi delle cravatte di una qualche noiosa campagna elettorale.

Manuel lo rivede, il percorso sempre uguale di quell’estate: scende in officina e saluta suo padre, che risponde sventolando un braccio da sotto un’auto zoppa, senza una ruota, e sbraita «non fare casini e non farmi cenare da solo per una volta.» Gli sembra ancora di sentirlo l’odore caldo dell’officina, dove suo padre si è rinchiuso da quando la madre di Manuel se ne è andata chissà dove. Manuel rivede la passeggiata lungo la piccola strada dove è nato, crateri e ragnatele di asfalto, impossibile trovare anche un solo metro liscio e curato. Le buche, Manuel, le conosce a memoria, potrebbe disegnarne la mappa a occhi chiusi. Un tempo tutto cemento abusivo, oggi qualcuno potrebbe chiamarle villette. Uno sguardo oltre il cancello della casa gialla dove ogni mattina vede la scena: Pino, il ragazzo spastico dall’età indefinita, su una sedia bianca, che lancia la palla al padre seduto a pochi metri da lui. Il padre la prende e senza dire nulla la rilancia a Pino. Quanto vanno avanti? Manuel non l’ha mai saputo, sa solo che ogni volta che passa, Pino e il padre sono lì, a lanciarsi la palla senza parlare. E che vita sarà mai quella. Pino spesso ha una maglietta con la pubblicità di una carrozzeria, il padre una canottiera. La palla è gialla e nera. Nel piazzale vicino al giardino c’è sempre una vecchia Ritmo, che chissà se va ancora in moto.

Manuel prosegue, aggira i cassonetti dell’immondizia, a volte sono solo carcasse carbonizzate perché quest’estate va di moda bruciarli. Lascia la stradina ed entra nello stradone, quello che da pochi anni è stato riempito da palazzine di otto – dieci piani, tutte uguali, rosse, balconi come cubi in cui pensare di vedere davvero il cielo, bilocali a 275 mila euro e le tribù dei mutui sono calate anche lì, più vicino ai campi nomadi abusivi che al raccordo, ma va bene lo stesso. Le parabole sui terrazzi. Manuel si ferma al bar nuovo, scruta il titolo in prima pagina del Corriere dello Sport, beve il caffè e scherza con Muscolo, il proprietario che qualche anno in carcere deve averlo fatto, ma se parli bene della Roma diventa un angioletto e ti offre anche un bicchiere d’acqua del rubinetto. Se entri nel bar e sta telefonando a qualche radio per discutere sull’ultima partita di campionato, ti devi mettere il cuore in pace e aspettare. Manuel cammina, prosegue, la destinazione è la fermata dell’autobus perché lo scooter è stato sequestrato da quelle merde della Municipale, anche se avevano ragione loro, a dirla tutta, perché il casco lo aveva dimenticato. Quasi sempre però si ferma prima.

C’è Sara, con la sua macchinetta digitale, trascorre le ore a scattare fotografie. Ha un anno in meno di lui, a scuola non va, ha lasciato subito dopo le medie. Ma da quando ha cominciato a parlarci, Manuel ha capito che Sara di cose ne sa parecchie, anche senza andare a scuola. Di sicuro molte più di lui. «Leggo molto. E poi mi tengo informata su Internet, lì trovo tutto», è la spiegazione di Sara. «Oggi che fotografi?» è la domanda con cui di solito Manuel attacca discorso, quando la incrocia lungo la strada dei palazzoni, che poi succede quasi tutti i giorni. Le foto di Sara. Manuel ha capito che Sara è un po’ come i pittori, va a periodi: c’è la settimana dei rifiuti, il mese delle automobili, quello delle scritte sui muri o delle pozzanghere.

Sara mette tutto su Facebook, decine di album di immagini che nessuno guarda visto che Piccola dama non ha nessun amico. Nessuno, a parte Manuel da quando hanno cominciato a parlarsi. «Aò fammele vedere le foto che fai…so curioso».

Lei per giorni ha rifiutato, alla fine ha allargato le braccia e gli ha risposto: «Vabbè chiedimi l’amicizia su Facebook, mi trovi come Piccola dama. Ma vedrai che non ti piacciono. Almeno la smetti di rompermi.» Manuel le ha chiesto l’amicizia e ha scoperto due cose: primo, è l’unico amico di Piccola dama; secondo, le foto, anche quando hanno come soggetto un cassonetto riflesso su una pozzanghera o lo scheletro di un motorino abbandonato sul marciapiede, sono belle, bellissime, delle rivelazioni. Manuel non sa spiegare perché, ma è sorpreso da come Sara sappia trovare la bellezza in ciò che vediamo ogni giorno. Manuel non sa nulla di arte, ma secondo lui quelle foto sono arte. Manuel sente una fitta allo stomaco guardando le foto di Sara.

«Secondo me dovresti esporle» le dice ogni tanto, «ma va, io queste foto le faccio per me, chi pensi sarebbe interessato a vederle?», risponde lei. Sara è strana. Quando la prima volta, incuriosito perché l’aveva notata mentre fotografava degli pneumatici abbandonati fra le erbacce, le aveva chiesto «me le fai vedere dopo queste foto?», lei dura e diffidente aveva risposto «lasciami stare.» Dopo però avevano iniziato a parlare, i muri erano caduti uno dopo l’altro, dialogavano prima a monosillabi, poi con maggiore fiducia reciproca. E Sara gli aveva confidato: «Ma lo sai che sei il primo ragazzo del quartiere che mi ha rivolto la parola?», «E come mai?», «Perché sono brutta, brutta e strana, non lo vedi?» In effetti, aveva pensato Manuel, Sara è brutta: bassa, con il culo molto grosso, la testa piccola e sproporzionata, poche tette, le spalle ricurve, gli occhi piccoli e obliqui. Di dirle una balla non gli andava, per cui la prima volta aveva risposto con una verità: «Ce ne sono delle più brutte.»

Quell’estate. Quasi ogni giorno Manuel e Sara s’incontrano, parlano, lui commenta le foto di lei che va a vedersi la sera su Facebook. Un giorno lei gli chiede di accompagnarlo al nuovo centro commerciale che hanno aperto da pochi giorni, inaugurazione con decine di migliaia di persone sudate in fila per comprarsi uno smartphone a 299 euro davanti a una vetrina e a due vigilanti spaventati. «Ora c’è meno casino», lo rassicura Sara, che vuole scattare delle foto all’architettura ruffiana del nuovo centro commerciale. A piedi è un viaggio e fa pure caldo, merda, ma alla fine Manuel la ricorda come una bella giornata. Chiacchierano.

«Sai qual è la cosa buffa? Che mio padre e mia madre sono molto belli, alti, biondi. E mio fratello è bellissimo, potrebbe fare del cinema. Solo io sono venuta così strana. Pensa che volevano chiamarmi Linda che in spagnolo vuol dire bella. Per fortuna non l’hanno fatto.»
«Ma ti trattano male? Tuo fratello come ti tratta?»
«Male? No, non direi. I miei cercano di essere gentili, ma si vede che un po’ li metto in imbarazzo. Mio fratello, che ha due anni in più di me, invece mi vuole un bene dell’anima. A volte mi sento quasi in colpa a deluderlo. Ma che ci posso fare? Sono brutta. Brutta e strana.»
«Secondo me esageri, ho visto ragazze molto più brutte di te scoparsi dei miei amici passabili… devi solo avere più fiducia.»
«Sai che c’è? Il problema è che io sono brutta e strana, ma ho la testa, la personalità di chi si sente molto bella. Non ti mettere a ridere, ma io non ho l’umiltà di chi è brutto. Per cui non mi accontento, non mi comporto nel modo giusto. A volte penso che in un’altra vita ero davvero una gran gnocca, ma un incantesimo, come nelle favole, mi ha trasformato come sono. Devo avere fatto incazzare qualche strega.»
«Certo che ne dici di stronzate, no?»

Alla sera Manuel va a vedere su Facebook le foto scattate al centro commerciale: bellissime. Tristi, ma bellissime. Manuel è colpito dall’immagine della fila cupa delle colonne del parcheggio sotterraneo, inframmezzata dalle auto e da qualche famiglia che sembra sperduta.

Un’altra volta, mentre sono nel garage di Sara per cercare batterie di ricambio per la macchina fotografica, lei gli fa una richiesta. A freddo, così, senza avere mai affrontato l’argomento prima.

«Mi vergogno un po’ a chiedertelo, ma non saprei a chi altro domandarlo. Lo sai che non ho mai avuto un ragazzo e, quindi, non ho mai visto… vabbè hai capito di che parlo, non ho mai visto un pisello. Vabbè l’ho visto su Internet, nelle foto. Intendo che non l’ho mai visto dal vivo. Non è che me lo faresti vedere?»
Dieci secondi di silenzio, Manuel dondola sui suoi piedi, poi risponde «ma come lo vuoi vedere moscio o duro?», «Fai te.» Manuel si apre i jeans, abbassa i boxer, si sente un po’ come un ragazzino delle scuole medie. Lo lascia toccare a Sara e se lo fa diventare anche duro. «Grazie, sei stato un amico. Sarebbe meglio non lo raccontassi a nessuno. Ora andiamo», dice lei. Da quel giorno non ne hanno più parlato, ma a entrambi alla fine non è sembrato nulla di speciale, come se Sara avesse chiesto a Manuel di fare un giro sullo scooter.

«Sai» racconta un’altra volta Manuel a Sara «l’altro giorno ho fatto un salto al nuovo centro commerciale. Nel magazzino, quello grande dove volevo comprare i jeans, ho visto un ragazzo, avrà avuto cinque o sei anni più di noi, ma era su una di quelle sedie a rotelle motorizzate, con quello strano aggeggio che ferma il collo. Poteva fare pochissimi movimenti. Mi ha colpito perché con lui c’era la madre. Una signora vestita bene, con i capelli corti, gli occhiali, una bella borsetta. E lei gli diceva “ma sai Antonio che delle cose che abbiamo comprato l’altra volta non ti sei messo ancora nulla? Sei proprio incontentabile”. Lui era immobile, silenzioso, lo sguardo fisso come un bambolotto. Io stavo quasi per piangere, avrei voluto dire a quella donna: ma brutta stronza, cosa cazzo vuoi comprargli, non vedi come è messo, ma pensi davvero che possa fregargliene qualcosa di come vestirsi, di una maglietta, una camicia, una polo, pensi che cambierebbe qualcosa? Poi ci ho ripensato e la voglia di piangere era ancora più forte. Ho fatto alte due ipotesi: che lei dicesse così per continuare a comportarsi con suo figlio come faceva prima dell’incidente, semmai c’era stato un incidente; o che tentasse di fare sentire lui come un figlio qualsiasi che discute con la madre.» Sara sospira, accarezza la sua macchina fotografica, lo guarda e risponde: «Certo che la vita è complicata…li hai mai visti il padre e il figlio handicappato, quelli della villetta nella tua strada, che tutti i giorni trascorrono le ore lanciandosi una palla? Vorrei fotografarli, sarebbe un’immagine bellissima. Ma non ce la faccio, neppure di nascosto.»

Manuel ripensa a quell’estate. Al bar da Muscolo studiava il Corriere dello Sport per decifrare il mercato della Roma, poi passava al Messaggero ma leggeva solo gli articoli sui roghi, su qualche matto che andava in giro a bruciare macchine e motorini. Manuel ripensa al giorno in cui, poco dopo avere compiuto diciotto anni, Sara è scomparsa.

Era già settembre. Nel quartiere tutti ne parlavano, chi diceva che era stata uccisa, chi rapita, «di certo non l’hanno violentata» commentavano i più stronzi. Manuel andava a vedere la pagina di Piccola dama su Facebook, sperando di trovare una traccia, un messaggio, un aggiornamento, ma era immobile, immutabile. Non cambiava nulla nella pagina di Piccola dama.

Una mattina, a casa di Manuel, si presenta un bel ragazzo biondo, alto, serio. Disperato, balbetta, ha gli occhi rossi, entra nell’officina. «A Manuel, te stanno a cercà», urla il padre.
Manuel scende, vede il ragazzo biondo, gli dice: «Avevi bisogno? Scusa, ma chi sei?»
«Sono il fratello di Sara. È da due mesi che non abbiamo più notizie di lei, so che tu ogni tanto ci parlavi. Eravate amici, no?»

Manuel gli stringe la mano, gli dice che anche lui non riesce a spiegare la scomparsa di Sara, che lei non aveva mai parlato di viaggi e di fughe, le piaceva fare fotografie e basta, ma i carabinieri stanno indagando, i giornali come mai non ne parlano più? Il fratello di Sara allarga le braccia, piange, spiega che i genitori hanno fatto il minimo indispensabile, poi hanno smesso di cercarla, l’unica cosa che lo rassicura è che dal conto che aveva in comune con la sorella mancano parecchi soldi, forse Sara è fuggita, ma perché non mi fa sapere se sta bene? I miei si sono rifiutati pure di andare a Chi l’ha visto. Manuel l’abbraccia. «Se so qualcosa ti faccio sapere, speriamo dai.»

Da quel giorno è passato un anno e mezzo. Di Sara non ha più sentito parlare, di quell’estate restano solo il padre e il figlio spastico che si lanciano la palla nera e gialla nel cortile della villetta lungo la strada piccola. Manuel torna a guardare su Facebook gli album di foto scattate da Sara, anzi da Piccola dama. I garage, gli scooter parcheggiati, la serie dei manifesti elettorali, le arcate del centro commerciale, i sacchetti neri dei rifiuti, un autobus lontano. Poi Manuel si ferma e per un attimo smette di respirare.

Si accorge che ci sono foto nuove, immagini che non aveva mai visto: sono scattate dall’alto, si vedono lunghe colonne di auto, traffico caotico di giorno e di notte, quasi sembra di sentirne i rumori, i clacson, le voci, taxi dai colori esotici, fucsia, rossi, blu, gialli, forse una città asiatica. Come al solito le foto sono bellissime, solo più brillanti, scintillanti, allegre di quelle degli altri album. Manuel comincia a ridere come uno scemo. Pensa «brava Sara», sceglie la foto più bella e clicca su “mi piace”. Prende una birra dal frigo, la apre e la alza nella direzione del computer: alla tua, Sara, cazzo ce l’hai fatta.

Sara sta passeggiando nel parco Lumphini, sullo sfondo lo smog grigio-celeste, i grattacieli e il treno volante che passa proprio in quel momento su Bangkok. Lei, come sempre, ha la sua digitale appesa al collo, attorno una scenografia di prati, laghetti e alberi compiacenti. Vicino scorre il torrente di persone che fanno footing o semplicemente camminano, quarantenni thailandesi con le Nike e la maglia della Juventus, ragazzini con le cuffiette e l’iPod in mano, signore anziane che camminano fiere con una bella maglietta bianca, uomini d’affari anglosassoni che non possono permettersi di non essere in forma neppure ora che la multinazionale li ha trasferiti in Asia, ricchi, poveri, bassi, giovani, vecchi, qualche coppia che scruta il laghetto, sembra che ci siano tutti, questo pomeriggio al parco di Lumphini.

Sara sta camminando nel senso sbagliato, lei in una direzione, tutti gli altri in quell’opposta. Ma non importa, la mia vita è sempre stata così, scherza nella sua mente. Ogni tanto incrocia gli enormi lucertoloni, i varani, grandi come mezzo coccodrillo: la prima volta che li ha visti nel parco si è spaventata, poi ha capito che sono brutti ma innocui. All’improvviso, nel parco come nei giochi che si facevano da piccoli – quelli che Sara guardava solo – perché nessuno la invitava, tutti all’improvviso si fermano. Le persone immobili le ricordano anche quei film di fantascienza in cui succede uno strano evento che blocca il tempo. Si sente una musica dagli altoparlanti e Sara capisce che è l’inno thailandese. Vorrebbe scattare una foto, sarebbe una immagine bellissima, ma rinuncia perché teme che qualcuno si arrabbi. Quando l’inno finisce e l’altoparlante tace, il torrente riprende a scorrere, Sara raggiunge una delle porte principali del parco, sullo sfondo la statua di un qualche vecchio, colonne di auto e un cielo che fra i palazzi si sta colorando di rosso. Sara si ferma a guardare, incredula, centinaia di anziani che seguono uno strano personaggio, una specie di maestro matto di aerobica, che su un palco detta il ritmo degli esercizi, mentre in sottofondo va una musica pop thai. Questa volta Sara scatta, questa è proprio una bella foto, pensa. Una signora con i capelli bianchi e il viso attraversato dalle rughe le sorride. Sara oggi è felice. Le sue foto sono esposte nel cortile di un grande centro commerciale, migliaia di persone si fermano ad ammirarle. Alla sua mail le sono arrivati molti complimenti. Merito di Jiji, la sua compagna di appartamento. Che strana coppia: Jiji è sottile, bella, e fa i soldi sostanzialmente andando a letto con i turisti. Sara è brutta e grassa, da Roma e dalla sua famiglia e dalla sua vita è scappata per quello, si è ritrovata Bangkok lei che non era mai stato neppure fuori dal suo quartiere. Dopo un mese in albergo, non sa lei nemmeno come si è ritrovata a dividere l’appartamento su un grande viale con Jiji. Non sa per quale strana alchimia sono diventate subito amiche. Jiji le ha detto che le sue foto sono bellissime, le ha voluto presentare un suo amico italiano che fa il fotografo, uno crazy ma good person. Paride, il fotografo italiano, da dieci anni abita a Bangkok e soprattutto è alla ricerca della maniera di sottrarre meno tempo possibile ai suoi incontri ravvicinati con le ragazze thai e con la marijuana. Dopo avere guardato rapidamente su un portatile le foto di Sara, l’ha squadrata, ha sputato la gomma che stava masticando centrando un cestino, e le ha chiesto: «Sei sicura di essere una fotografa?» Sara sincera le ha riposto: «Direi proprio di no.»

Paride l’ha messa alla prova su alcuni servizi di scarsa importanza. Vai, scatti le foto, e se vanno bene ti do il venti per cento di quello che prendo io. Lo so, è un mondo ingiusto.

Sara ha detto che a lei andava bene così, all’inizio ha combinato solo pasticci, ma Paride ha capito che ci sapeva fare e che non era antipatica. Tanto bastava. «Nun se può guardà – ha pensato – però è brava e intelligente.»

L’importanza dei servizi è aumentata di volta in volta, fino a quando, il giorno in cui era troppo impegnato con una hostess di Singapore, ha consegnato Sara ad alcuni colleghi per andare a scattare delle foto al confine dove stava andando in scena una piccola guerra fra thailandesi e cambogiani. «Stai con gli altri, fai quello che fanno loro, non avere paura, sii prudente e indossa il giubbotto antiproiettile. Non fare le solite cazzate e non farmi stare in pensiero.»

Sara non ha avuto paura, si è divertita, è stata l’ombra di un vecchio fotografo spagnolo che l’ha presa in simpatia. Tre giorni dopo una delle sue foto è uscita in prima pagina sull’Herald Tribune. C’era la firma dell’agenzia e di Paride, che invece se n’era rimasto tutto il tempo in piscina con la hostess di Singapore. Paride le ha mandato un sms: lo so, sono una merda, ho firmato la tua foto, però questa volta ti concedo il 25 per cento. Ps: la foto era bellissima. Sara non era arrabbiata, era felice perché la sua foto era uscita su un giornale vero, perché non aveva combinato casini, perché il fotografo spagnolo l’aveva trattata come una collega e le aveva insegnato a bere alcolici senza ubriacarsi, perché la foresta era bellissima. Alla sera ha portato Jiji a cena in un ristorante italiano e si sono ubriacate.

Il giorno dopo Paride, che non è proprio una merda, ha segnalato agli organizzatori di una mostra in un centro commerciale le foto che Sara aveva fatto, per conto suo, in giro per Bangkok e aveva poi messo su Facebook. Dopo quindici giorni erano esposte, migliaia di persone le ammiravano e a Sara non sembrava vero. Poi le è arrivato il messaggio di Manuel, che qualche settimana prima aveva cliccato su mi piace proprio su una delle foto di Fb che ora stanno davanti al centro commerciale.

«Ma dove cavolo sei?», le ha chiesto sulla posta di Fb. Sara gli ha raccontato tutto: la sua strana storia, le foto per l’agenzia, quelle al confine con la Cambogia, le serate a mangiare pollo per strada con Jiji che le raccontava quali sono i turisti più taccagni e quelli più generosi, quelli più dotati e quelli più maleodoranti. Manuel le ha risposto che era in crisi, che aveva avuto una storia con una ma era finita di merda, che si era iscritto all’università ma legge non gli piaceva, che non voleva neppure finire in officina con il padre. Sara gli ha risposto: forse dovresti solo cambiare ambiente per un po’, vieni qua a Bangkok, ti trovo un albergo a quindici euro a notte, ti porti i libri, ti prepari gli esami e hai il tempo di pensare alla tua vita. Manuel all’inizio ha avuto paura, ha risposto «ci rifletto su, potrebbe essere una buona idea.»

Poi ne ha parlato con suo padre.
«Secondo te faccio una cazzata se vado?»
«Fai una cazzata se non vai, Bangkok ti piacerà e hai bisogno di uscire da sto cazzo di quartiere, non mi piace vederti sempre così.»
«Così come?»
«Boh, così spento. Aò, è chiaro che sarò agitato, preoccupato, che sarò in pensiero. Però penso che tu debba andare. Ma usa sempre il preservativo.»
«Guarda, che io vado là per rivedere Sara, per staccare, per riflettere.»
«Bravo, stacca, rifletti, però usa sempre il preservativo. E chiamami tutti i giorni su Skype.»

Ora, mentre Sara sta uscendo dal parco di Lumphini e prova ad attraversare la strada nel gorgo del traffico di Bangkok, si sente felice, come non mai. Perché anche Manuel le ha detto che le sue foto sono molto belle, perché adesso Manuel è in giro per Bangkok con Jiji. Lei prima ha spiegato a Jiji: guarda che Manuel non ha un soldo. Lei ha sorriso. Poi ha preso da parte Manuel: guarda che Jiji di solito va con i turisti per i soldi, è giusto che tu lo sappia. Manuel ha sorriso e ha risposto «nessuno è perfetto.» Manuel in questo momento sta giocando a bowling con Jiji, nel centro commerciale dove sono esposte le foto di Sara. Anche lui è felice, quanto meno libero. In quel momento, intanto, un ragazzo biondo, molto bello, sta facendo il check-in all’aeroporto di Fiumicino al banco della Thai. Qualche giorno prima ha ricevuto una lunga mail da Manuel che si concludeva con una frase: «Dai, prendi un aereo e vieni qua. Facciamo una sorpresa a Sara.»

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