lunedì 9 febbraio 2015

i corti che escono su move magazine/ 22 volevo solo una che mi scattasse le foto

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Volevo solo una che mi scattasse le foto


 Stava bene, aveva trovato un equilibrio soddisfacente, senza troppa fatica. Da solo. A trent'anni era un disegnatore ben pagato, nascosto dietro a uno pseudonimo. Così poteva partire quando voleva e viaggiare lo aiutava a trascorrere il tempo senza affanni. Non desiderava una donna o, più precisamente, una relazione. Per il sesso pagava, il metodo era efficace e senza le controindicazioni di una partner fissa. Voleva fare ciò che voleva, quando lo voleva. Decidere quando partire e quando tornare. Fermarsi vicino le cascate del Niagara, sotto il Golden Gate, lungo il Malecon, all'ombra delle Petronas Tower, a piazza Tien An Men o sulla Grand Place e scattare foto, caricarle su Instagram. E soprattutto selfie, che testimoniavano il suo passaggio nei differenti luoghi. Così la vita proseguiva senza scosse tra le giornate intense del disegno quando doveva consegnare un lavoro, le telefonate alle escort che una volta al mese convocava nel suo appartamento, la ricerca su Internet di un volo per partire quando gli impegni erano stati rispettati, la preparazione di una lista di luoghi da visitare nella città o nella nazione prescelta, i ristoranti migliori, le discoteche con le ragazze più disponibili, le foto, i selfie. Andava bene così e quando quelli della casa editrice lo invitavano a prendere un aperitivo, a mangiare una pizza, a una festa, lui quasi sempre rifiutava perché sapeva che si sarebbe annoiato. Il flusso di vita organizzata che aveva imparato a gestire era tutto ciò di cui aveva bisogno. A giugno partì per Cartagena de las Indias, Colombia: aveva letto un articolo in cui si magnificavano le bellezze del centro storico e delle spiagge e la vivacità della vita notturna. La seconda sera, in una discoteca frequentata da turisti in cerca di ragazze e da ragazze in cerca di turisti con i soldi, passò in rassegna con lo sguardo le bionde, le rosse e le brune, i jeans attillati, le tette rifatte, le gonne minuscole. Poi si avvicinò a una bassa e dai capelli scuri e le chiese di andare in hotel con lui. «Me llamo Angela» gli disse. Dopo un'ora di sesso le diede l'equivalente di cento euro e le chiese di andarsene. «Non vuoi che resto a dormire con te?». «Preferisco di no» rispose, sincero perché non sopportava dormire con un'altra persona. Due giorni dopo passeggiava nei vicoli del centro coloniale, tra i palazzi di pietra chiara, faceva molto caldo ed era sudato. Si fermò per scattarsi un selfie con la cattedrale alle spalle. Sentì una voce rivolgersi a lui, in italiano: «Ti scatto una foto, guapo?». Era Angela. Le diede lo smartphone e si lasciò fotografare. Trascorsero il pomeriggio tra i vicoli e le piazze, il Palacio de la Inquisicion e Plaza Santo Domingo. Angela gli scattò decine di foto. Quando gli propose di farsi un selfie insieme, lui rispose che preferiva di no e lei non glielo chiese più. Lui però si accorse di stare bene con Angela, non era più costretto a strane contorsioni per scattarsi i selfie. Si lasciò convincere a tornare in Colombia tre mesi dopo, lui che non aveva mai dato troppa importanza al denaro esaudiva ogni richiesta di Angela. Accettò anche di seguirla a Baranquilla, per conoscere la sua famiglia. Si abituò a dormire con lei, a usare il gabinetto sapendo che lei poteva entrare in qualsiasi momento. Cinque mesi dopo la invitò in Italia è la sposò, per rendere tutto più semplice. Lei trascorreva le giornate a guardare la tv o chattare su Facebook con altri colombiani. Ogni tanto partivano - Parigi, Barcellona, Capri - e lei gli scattava le foto. Non si fecero mai una foto insieme. A volte andavano a Civita di Bagnoregio, nel Viterbese, ad Angela piaceva, perché lì avevano girato una telenovela brasiliana che guardava quando era bambina. «Tu sei troppo freddo, distante, mi sembra di essere sposata a un computer» un giorno gli disse. Lui non rispose, pensando che non fosse importante. Di giorno in giorno la vide sempre più scura in volto, assente. Non rideva più. Finché una sera gli annunciò: «Io me ne vado, non ce la faccio più, mi dispiace. Non ti preoccupare, non voglio i tuoi soldi». «Fai come vuoi» rispose lui, non troppo preoccupato perché in fondo aveva sempre vissuto da solo, bastava ripristinare l'antico equilibrio. Non fu difficile. L'accompagnò alla stazione, Angela si trasferì in un'altra città. Lui non lo notò, lei lo nascose perché era troppo orgogliosa, ma prima di salire sul treno una lacrima sbucò da sotto gli occhiali scuri. Lui tornò alla sua vita di sempre. Si comprò un'asta per scattarsi i selfie. Sentiva solo uno sfuggente sapore amaro in bocca. «In fondo - si disse una volta quando faticava ad addormentarsi - io volevo solo una che mi scattasse le foto». Oggi è passato un anno da quando Angela è salita sul treno. Lui, senza motivo, ha guidato fino a Civita di Bagnoregio, ha percorso a piedi il ponte, si è fermato al centro della piazza, e ha preso lo smartphone. Prima ha fatto qualche foto per Instagram, poi ha girato la fotocamera per il selfie. Sente una voce: «Ti scatto una foto, guapo?»

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